venerdì 29 novembre 2013

La leggenda dell'albero di Natale

Il periodo dell’Avvento bussa alle porte, ed allora è tempo per una bella storia natalizia, una di quelle che piacciono tanto ai bambini (ed agli adulti), da leggere insieme, volendo.



Il primissimo albero di Natale

Babbo Natale stava attraversando il bosco. Era di cattivo umore. Il suo cagnolino bianco, che di solito gli correva davanti con gioia, se n'accorse e s'insinuò dietro il suo padrone con la coda tra le gambe. Non provava più soddisfazione nel suo lavoro. Tutti gli anni era la stessa storia. Non c'era più entusiasmo. Giocattoli, cibi, alla lunga non servivano più. I bambini si divertivano certamente, ma lui voleva che urlassero, esultassero, e cantassero, ma ormai lo facevano sempre più di rado.

Babbo Natale si era lambiccato il cervello tutto il mese di dicembre per escogitare qualcosa che riportasse la vera gioia natalizia nel mondo dei bambini, una gioia a cui prendessero parte anche gli adulti. Ma niente.
Così procedeva faticosamente dentro la foresta innevata, fino a quando non giunse ad un incrocio. Lì aveva un appuntamento con Gesù Bambino, con il quale si consigliava sempre sulla distribuzione dei doni. Già da lontano vide che Gesù Bambino era già arrivato, perché in quel punto c'era un chiarore luminoso.

Il Bambin Gesù indossava un abitino bianco di pelliccia e il suo volto era tutto un sorriso: "Come va, vecchio mio?", chiese Gesù bambino. "Hai la luna storta?" Allora se lo prese a braccetto e andò via con lui. Dietro di loro trotterellava il cagnolino, ma non sembrava più triste e la coda ora era alzata, baldanzosa.
"Sì", disse Babbo Natale, " non mi diverto più. Che sia colpa dell'età o d'altro, non lo so. Il fatto è che dopo i dolcetti, le mele e le nocciole, è finito tutto. Finiscono di mangiarle e la festa è finita. Bisognerebbe trovare qualcosa di nuovo."Gesù Bambino fece un cenno di approvazione con la testa ed assunse un'espressione pensierosa; poi disse: "Hai ragione, vecchio mio, ci ho pensato anch’io, ma non è così facile." "E' proprio questo" brontolò Babbo Natale, "sono ormai troppo vecchio e troppo sciocco. Mi è già venuto un bel mal di testa a forza di pensarci, ma non mi viene in mente proprio niente di divertente".

Pensierosi, andarono entrambi attraverso il bosco bianco, Babbo Natale con il volto burbero e Gesù Bambino meditabondo. Nella foresta tutto era silenzioso, non si muoveva niente, soltanto quando la civetta si sedeva sopra un ramo, cadeva, con un rumore sommesso, un pezzetto di quella specie di decorazione che forma la neve appena caduta. La luna splendeva chiara e luminosa, tutte le stelle luccicavano, la neve pareva argento e gli abeti stavano lì, neri e bianchi, era proprio uno splendore.

Un abete alto cinque piedi che stava da solo in primo piano appariva particolarmente incantevole. Era ben proporzionato, su ogni ramo c'era una striatura di neve, sulle punte dei rami dei piccoli ghiaccioli, e così scintillava e luccicava al chiaro di luna. Gesù Bambino lasciò andare il braccio di Babbo Natale e diede un piccolo colpo al vecchietto in segno d'intesa, indicò l'abete e disse: "Non è semplicemente meraviglioso?" "Sì", disse il vecchietto, "ma questo a cosa mi serve?". "Tira fuori un paio di mele", disse il Bambin Gesù, "mi è venuta un'idea."Babbo Natale fece una faccia stupita perché non riusciva a immaginare come a Gesù Bambino fosse venuto voglia di mangiare delle mele ghiacciate con quel freddo.

Staccò la sua cinghia, adagiò il suo enorme sacco nella neve, frugò dentro e allungò un paio di belle mele."Adesso tagliami qualche cordicella in due pezzi lunghi un dito e fammi dei piccoli paletti", disse Gesù Bambino. Al vecchietto tutto questo parve un po' buffo, ma non disse nulla e fece quello che gli aveva detto Gesù Bambino. Quando ebbe preparato le cordicelle e i paletti, Gesù Bambino prese una mela, gl'infilò dentro un paletto, legò attorno il filo e lo appese ad un ramo.

"Così", disse, "ed ora tocca agli altri e tu mi puoi aiutare, ma fa attenzione, che non cada giù neppure un fiocco di neve!" Il vecchietto lo aiutò, sebbene non sapesse perché, ma la cosa lo divertiva e non appena l'intero alberello fu carico di belle mele rosse, si allontanò cinque passi, si mise a ridere e disse: "Guarda, quanto è grazioso! Ma che senso ha tutto ciò?". "C'è proprio bisogno che tutto abbia uno scopo?" rise Gesù Bambino. "Stai attento, che lo faccio ancora più bello. Adesso dammi anche le nocciole!"

Il vecchietto fece scivolare fuori del suo sacco delle noci e le diede a Gesù Bambino. Infilò in ognuna un bastoncino, ci attaccò un filo e l'appese tra le mele. "Cosa ne dici adesso, vecchio mio?" domandò, "non è la cosa più bella del mondo?". "Si", disse, "ma non so ancora..." "Vieni dai!" rise Gesù Bambino. "Hai delle luci?".Ora, l'alberello stava lì sulla neve, dai suoi rami innevati facevano bella mostra di sé le mele rubiconde, le nocciole d'oro e d'argento brillavano e luccicavano, e le candele di cera gialle ardevano festosamente. Con il suo viso bianco e roseo Gesù Bambino era tutto sorridente e batteva le mani, il vecchio Babbo Natale non sembrava più così di cattivo umore e il cagnolino saltava di qua e di là e abbaiava. Quando le luci ebbero finito un poco di bruciare, Gesù Bambino agitò le sue ali d'oro e d'argento e le luci si spensero. Disse a Babbo Natale di segare l'alberello con cura.

Poi scesero entrambi dalla montagna portandosi dietro l'alberello variopinto. Quando arrivarono al paese tutti dormivano. Si fermarono alla casa più piccola. Gesù Bambino aprì la porta piano piano ed entrò; Babbo Natale gli venne dietro. Nella stanza c'era uno sgabello a tre gambe. Lo misero sul tavolo e c'infilarono l'albero. Babbo Natale pose sotto l'albero ancora tante belle cose, giocattoli, dolci, mele e nocciole, e poi tutti e due lasciarono la casa in punta dei piedi, come erano entrati. Quando l'uomo a cui apparteneva la casetta, la mattina seguente, si svegliò e vide l'albero variopinto, rimase stupito e non sapeva che cosa dire.

Accese le luci dell'alberello e svegliò la moglie e i bambini. C'era una tale atmosfera di gioia nella casa come non c'era stata mai durante i Natali passati. Nessun bambino badava ai giocattoli, ai dolci, e alle mele, tutti guardavano solamente l'albero con le luci. Si presero per mano, ballarono intorno all'albero e cantarono tutti le canzoni di Natale che sapevano.



Quando fu giorno pieno vennero gli amici e i parenti del minatore, guardarono l'alberello, si rallegrarono e andarono subito nel bosco, per andare a prendersi anche loro un alberello per i loro bambini. Le altre persone che videro questi, li imitarono, ognuno si prese un abete e lo decorò, chi in un modo, chi in un altro, ma luci, mele e nocciole le mettevano tutti quanti. Quando si fece sera ardeva in tutto il villaggio, casa per casa, un albero di Natale, dovunque si sentivano canzoni di Natale e il giubilo e le risa dei bambini.


Da lì l'albero di Natale ha fatto il giro di tutta la Germania e da lì del mondo intero.

venerdì 4 ottobre 2013

E' di nuovo Oktoberfest al Grano e Sale !

Dopo il successo del 2012 la Pizzeria Grano e Sale ripropone la propria Oktoberfest Bavarese anche quest'anno !   
Da Mercoledì 9 a Venerdì 18 Ottobre Grano e Sale si trasforma nell'interno di una tipica Zelt bavarese, proponendo gusti, odori, colori, musica e naturalmente la tipica Birra Paulaner che rende celebre ed amata la Festa tedesca per eccellenza !



In questo piccolo Blog abbiamo già ampiamente parlato dell'Oktoberfest, ed allora -avvicinandosi la ricorrenza Narnese- bavarese - per chi se li fosse persi, riproponiamo oggi proprio  i post dedicati all'evento dell'anno passato: una piccola guida  in 2 parti  (Parte 1 e Parte 2) ed un post speciale dedicato alla tipica Birra dell'Oktoberfest, la Maerzenbier (eccolo qui). 


Buona lettura, ed - in attesa della vostra visita - Prost !




giovedì 1 agosto 2013

Buone Vacanze !

Sia che andiate a friggere in spiaggia per poi rinfrescarvi in  acqua, oppure sui monti, a passeggiare e prendere il fresco, o ancora su un'isola deserta o a New York, Berlino, Parigi... insomma ovunque trascorrerete le vostre meritate vacanze (anche all'ombra di un albero a casa, a rilassarsi, perché no?) il Blog di Grano e Sale vi augura

Buone Vacanze !!



Ci prendiamo una pausa anche noi per ricaricare le pile e ritrovarci più in forma di prima a Settembre !

martedì 16 luglio 2013

Letture golose per l'estate

L'estate è la stagione delle letture per eccellenza, un periodo in cui un buon libro non si nega a nessuno, complice il relax (sotto l'ombrellone, in montagna, o semplicemente sdraiati all'ombra del giardino..) con la consueta pigrizia del fisico, che finalmente può rallentare  un po' il ritmo frenetico della settimana, tutti noi - chi più chi meno - prendiamo in mano un libro, per goderci la pace delle pagine, o dello schermo, nel caso di E-books.
Visto che questo è un blog che spesso attinge ai libri ed alle letture "di genere" per stimolare la curiosità dei lettori attorno al cibo, alle bevande, alle tradizioni ed alla convivialità in generale, mi sembrava logico consigliare un piccolo libro molto divertente ed istruttivo in questa sede.

Uno dei maggiori esperti italiani di alimentazione e tradizione culinaria è senza dubbio  Massimo Montanari, docente di Storia Medievale a Bologna, eccellente divulgatore ed ottimo scrittore di storie alimentari, con uno stile accessibile anche ai non esperti del ramo: accanto a veri e propri monumenti della letteratura storico-alimentare come la serie del Convivio, Alimentazione e cultura nel Medioevo, La fame e l'abbondanza e tanti altri titoli (quasi tutti editi dalla Laterza) interessanti, il professor Montanari - da qualche anno - si è dato anche alla letteratura di divulgazione più "leggera", proponendo dei godibilissimi volumi che raccontano la storia del cibo dal punto di vista dell'aneddoto, della curiosità, citando leggende e spiegandoci le radici delle nostre abitudini alimentari.

Tra queste ultime opere voglio consigliarvi un titolo: 



Il volume ci accompagna, con leggerezza ed ironia, lungo un cammino fatto di curiosità e storie affascinanti che ripercorre la storia ufficiale e quella orale dei cibi e delle tradizioni conviviali, dall'antica Roma ai Fast Food: 

"Perché il pane è un simbolo di civiltà? Cosa può insegnarci la pasta sul rapporto tra forma e sostanza? Che cosa significa dividere le carni, e non poter dividere la minestra? Ricercare la ricetta perfetta è ideologicamente corretto? Le ricette di cucina hanno qualcosa in comune con le ricette del medico? Perché al barbecue cucinano sempre i maschi? I piccoli gesti della vita quotidiana hanno un senso quasi mai banale. Aiutano a riflettere su quello che accade ogni giorno intorno a noi, sul nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi. "Un'idea a cui sono particolarmente affezionato", scrive Montanari, "è che le pratiche di cucina non solo costituiscono un decisivo tassello del patrimonio culturale di una società, ma in molti casi rivelano meccanismi fondamentali del nostro agire materiale e intellettuale. La cucina può così essere assunta come metafora della vita, a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina".

Allora buona lettura e buone vacanze !

domenica 30 giugno 2013

La geografia occulta del consumismo: una gita al supermercato

Vi siete mai chiesti come mai la maggior parte dei centri commerciali, o i grandi supermercati siano organizzati in modo simile al loro interno?  Cosa si nasconde dietro quella che potremmo definire "l'architettura del consumo moderno"? C'è un disegno comune alla base dei nostri acquisti, sempre più spesso compulsivi? 

Un articolo che lessi alcuni anni fa in una rivista tedesca gettò una luce particolare sui meccanismi artificiali che creano il consumismo ossessivo in alcuni spazi, tipo i Centri Commerciali o i grandi supermercati. 
In quel tempo non ero ancora del tutto consapevole delle varie strategie del marketing e - a dire  il vero - la faccenda sembrava più un argomento da Einkaufszentren tedeschi, o al massimo adatto alle Shopping Mall made in USA, visto che in Italia i primi grandi centri commerciali risalgono ormai agli anni 90... 



Oggi però anche l'Italia è un paese a forte connotazione consumistica, e molti aspetti di quelle teorie, inizialmente estranee alle nostre spese quotidiane, fatte di botteghe e mercati pubblici, sono ben noti a chiunque abbia familiarità con i grandi centri commerciali.

Il supermercato è  una città virtuale, dove le mura sono fatte di lattine, cartoni per il latte, e le salite sono rimpiazzate da montagne di frutta; tutte le strade poi ci portano immancabilmente verso delle magiche casse  che emettono toni musicali. Questo è il mondo che ci spinge - spesso inconsapevolmente -  a comprare sempre di più rispetto a ciò di cui abbiano bisogno, e che ci invita insomma a restare più a lungo del necessario....

Quasi ogni supermercato inizia da destra; l'uomo si orienta meglio a destra, guida a destra e lo sguardo passa da destra a sinistra. A destra gli scaffali sono colorati, pieni di ogni ben di Dio. Appena dopo l'entrata luccicano già i pomodori, le mele, e l'insalata sembra ancora umida di campo.
Dopo la frutta e la verdura inizia il labirinto degli scaffali. Decine, centinaia di metri con ripiani frigo pieni di yogurt, formaggi freschi e latte.



Camminando seguiamo inconsapevolmente il procedere della giornata: alla mattina la colazione, quindi latte e youghurt, e visto che il latte viene esposto alla fine del frigo, l'occhio si posa immancabilmente sui prodotti affini. Improvvisamente, a sinistra, inizia la teoria del caffè e del thé, e poi le marmellate e le creme spalmabili.

Gli psicologi del marketing ordinano la merce seguendo i nostri impulsi ed il nostro orientamento quotidiano. Ci muoviamo - per così dire - nel tempo, oltre che nello spazio. Quindi si passa al pranzo, con pasta, zuppe e conserve.  
Allora seguirà  la zona sera: vino, birra, alcol, e poi cioccolata, per concludere la serata.
Ogni gruppo merceologico segue un principio comune.  Tutti ad esempio ci laviamo i denti la mattina, poi ci laviamo, quindi i dentifrici precedono il sapone.

Passiamo ora al reparto "freschi", il reparto salumi e formaggi. Il cliente incontra per la prima volta il personale, qui può chiedere consiglio, può informarsi, e qui passa più tempo in attesa. 



Forse non tutti sanno che al fine di far risaltare la freschezza della carne (soprattutto nel frigo) vengono poste alla base degli scaffali delle piccole luci rossastre, orientate da sinistra a destra, in modo che la carne sembri più rossa (il nostro cervello associa il rosso al sangue e quindi alla carne) sebbene in alcuni casi - come per il pollame - ciò non sia necessario.

Questo colore in effetti "sostiene" la normale colorazione della carne, così come il reparto latticini godrà sempre di una luce più bianca del necessario, e non a caso spesso i due banchi frigo sono posizionati l'uno accanto al'altro, per esaltare ancora di più questa differenza cromatica!



Le offerte speciali vivono invece in delle "isole" speciali, tra gli scaffali, magari sistemate a mo' di piccole montagne (le acque minerali, i dolci, il panettone a Natale..), vere e proprie "zone pedonali" dove soffermarsi necessariamente prima di potersi infilare in un'altra teoria di scaffali. 

La disposizione della merce negli scaffali è anch'essa pensata a tavolino: i prodotti di marca, più cari, sostenuti dalla pubblicità si troveranno sempre al centro dei ripiani, ad altezza di occhio (cioè tra la nostra testa ed il busto) in modo che non dovremmo piegarci o alzarci innaturalmente per prenderli.
In basso o in alto i prodotti meno commercializzati, oppure quelli indispensabili (di cui comunque abbiamo bisogno) come la carta igienica...



Dopo una media di 20/30 minuti approdiamo finalmente alle casse. Ma qui l'attesa è lunga, quindi poco prima di pagare saremo attratti dalle ultime sirene: cioccolatini, gomme, magari lamette da barba, oppure, pensando alla serata, profilattici... Tutta merce che era inizialmente esclusa dalla nostra lista, ma che ora, in coda, afferriamo automaticamente prima di uscire...




All'uscita ci rendiamo conto di aver acquistato dal 20 al 30% in più di quanto previsto, ma questo i ricercatori del marketing lo sanno già...

venerdì 7 giugno 2013

Gli orti di città e la campagna Umbra

La tradizione culinaria in Umbria viaggia – si potrebbe dire – lungo due percorsi abbastanza definiti: quello vegetale e quello animale, che spesso  si incontrano  e si contaminano a vicenda. L’Umbria  può infatti essere definita come lo spartiacque geografico tra la “Romania” e la “Longobardia”, con una lunga storia di sovrapposizioni ed incroci  politici tra lo Stato della Chiesa ed i ducati Longobardi (si pensi a Spoleto), ed entrambe le dominazioni hanno contribuito  a formare una sorta di koinè alimentare umbra: dall’uso dei cereali, con i diversi tipi di panificazione, allo sfruttamento del maiale (per cui Norcia diventa addirittura una “capitale” culturale della lavorazione),  questi due mondi si incontrano sulle nostre tavole da secoli.



Il maiale, in ogni sua declinazione (dall’arrosto ai salumi) ha sempre giocato un ruolo importante nelle nostre cucine: la lavorazione della sua carne è da tempo immemorabile  un momento di unione, di convivio, di “pacificazione” tra famiglie e vicinanze addirittura, ed ogni operazione relativa alla sua preparazione coinvolge interi gruppi familiari sia in campagna che nelle piccole città.

La carne però è spesso un lusso, e durante i periodi di carestia - dal medioevo al 19° secolo –  il suo uso è fortemente limitato,  quindi alla base dell’alimentazione “di massa” ci sono le verdure, le erbe, i frutti della terra che vengono cucinati e serviti in ogni combinazione possibile.



L’importanza delle “verdure basse”, quelle che ogni cittadino può coltivare nel proprio orto, è allora fondamentale per la nostra cucina, e - ben prima dell’arrivo dei frutti esotici e del pomodoro, che arricchiranno i nostri giardini  solo a partire dal 17° secolo – le erbe naturali entrano nella nostra cultura popolare, come sinonimo di cibo povero ma essenziale,  per cui, quando dalle  nostre parti si fa riferimento al cibo semplice, si dice “mangiare pane e cicoria” !

Alcune erbe di campo sono  da sempre alla base della cucina popolare Umbra, e la conoscenza di un territorio e delle sue piante sono fondamentali per trasmettere cultura locale,  prima a livello orale, quindi in forma scritta, nelle ricette casalinghe, quindi nei ricettari.



Certe erbe non hanno nemmeno un nome definito, vengono incluse nel termine “misticanza”, che indica genericamente un’insalata mista, eppure le donne e gli uomini della nostra terra le conoscono dall'alba dei tempi, mentre spesso i botanici e gli scienziati ne ignorano l’uso e la stessa esistenza. In questo senso la cultura  popolare le ha veicolate verso il presente, senza bisogno di essere definite.

Nei periodi di magra, in pieno inverno, o durante le frequenti carestie, le erbe prendono il posto della carne, ovvero – se possibile – la accompagnano abbondantemente per supplire alla carenza di calorie; l’orto privato, domestico, o vicinale gioca in questo senso un ruolo fondamentale per l’alimentazione del gruppo-famiglia, e la stessa geografia urbana delle nostre città  (almeno fino ai primi anni del ‘900) veniva caratterizzata da un continuo alternarsi di mura ed orti, di giardini privati e semplici passaggi naturali verso le porte della città.



La tradizione delle passeggiate “extra moenia” a caccia di cicoria, raponzoli, valeriana, asparagi ed altre erbe è sopravvissuta fino ai giorni nostri, e soprattutto nei piccoli centri medievali non è raro imbattersi in anziani signori che si calano in fossi e percorrono strade poco battute durante le ore più calde del giorno, alla ricerca delle preziose erbe.

Si dice “erbe di campo” e si pensa ai fossi, ai prati, alla vegetazione spontanea che arricchisce le tavole a cavallo tra inverno e primavera, insalate dai gusti diversi, più amare di quelle coltivate e dai nomi curiosi, popolari (visto che – come abbiamo detto – non ne hanno di scientifici) che richiamano alla memoria il loro “uso” o la forma particolare: bietole, puntarelle, caccialepri, raponzoli, che si sposano all’aceto bollito, all’aglio, alla salsa di acciughe ed aceto, seguendo anch'esse una “nobilitazione” de facto.

Nel Medioevo i monaci chiamavano queste erbe “Provvidenza”, legando la loro  comparsa alla benevolenza di Dio;  un alimento che non necessita di lavoro quindi, un dono inatteso della terra, e mentre la regola benedettina spinge al lavoro nei campi (ora et labora) gli eremiti preferiscono vivere di elemosina, ed amano di conseguenza questo cibo “divino”.



La maggior parte degli uomini (in campagna, e nelle nuove città nel medioevo) cercano però una sintesi, e così coltivano il campo, zappano, arano, ma poi accolgono con gioia anche queste erbe spontanee.
Gli orti nel medioevo sono straordinari luoghi di sperimentazione, dove i saperi agronomici e le pratiche  di coltivazione si incrociano, e danno vita a veri e propri percorsi ideali e materiali. L’orto fornisce  il cibo (erbe, frutta, verdura e spesso cereali per preparare  il pane) ed assolve così alla sua funzione primaria, ma allo stesso tempo ripropone  uno spazio ideale, mistico (si pensi ai giardini zen della tradizione orientale), dove  il credente può addirittura ripercorrere i sentieri dell’eden, circondato da piante, colori ed odori che richiamano una spiritualità ascetica.
Le piante selvatiche, di campo, vengono lentamente addomesticate, e così i finocchi ed i cardi vengono  addolciti dagli orticoltori, che li trapiantano nei giardini strappandoli alla natura “salvatica” del bosco, del campo appunto.



Nei secoli le erbe selvatiche hanno persino contribuito alla ricerca affannosa del pane, il vero elemento culturale italiano, tanto importante nella nostra storia da aver contaminato il linguaggio, per cui l’italiano è l’unica lingua che  prevede l’espressione “pane e companatico”, da cui si desume che l’alimento centrale è il pane, il resto è con il pane.  Questa centralità del pane (insieme a quella dell’olio) è – in parte – retaggio del cristianesimo, per cui la stessa transustanziazione vede il corpo di Cristo farsi pane per noi, ed il pane quotidiano è l’elemento portante addirittura del Padre Nostro.




Nei tempi  di carestia però, soprattutto nell’alto Medioevo e durante i lunghi periodi bellici, i cereali alti (grano) e quelli bassi (spelta, miglio..) scompaiono dalla tavola, ed allora non sono rari i casi di improbabili tentativi di panificazione con erbe di campo, persino con erbacce, che venivano macinate e trasformate in pagnotte, dal dubbio potere nutritivo e sostanzialmente immangiabili, se  non nocive per l’uomo. L’unico succedaneo del grano (naturalmente prima della comparsa del mais in Europa)  che ebbe fortuna fu la castagna: cotta, sminuzzata, tritata e trasformata in farina, da vita a quello che forse è il primo dolce nazionale: il castagnaccio.  



Non è un caso che il castagno sia anche chiamato “albero del pane” e la sua presenza all'interno degli orti vicinali o in quelli privati diventa nei secoli una costante anche in Umbria, accanto all'ulivo 

giovedì 23 maggio 2013

Cioccolata !

La quintessenza del dolce, il sogno di ogni goloso, la consolazione quotidiana, ovvero sua Maestà la Cioccolata non è sempre stata dolce, lo è diventata, con il tempo, per la nostra gioia.

Con il poco allettante nome di Cacahuatl i Maya indicavano una pianta del centro America, i cui noccioli venivano frantumati e poi bolliti nell'acqua, la bevanda ottenuta veniva poi arricchita con pepe, peperoncino e zenzero, con l'aggiunta sporadica di un po' di miele - per attenuarne il sapore asprigno -  per poi essere bevuta fredda dai sacerdoti durante i riti sacri.  Proprio per questo suo uso "rituale" il "bibitone" venne chiamato Theobroma, ovvero "cibo degli Dei".


I Conquistadores europei furono incuriositi dalla bevanda, ma non la amarono particolarmente, non incontrando i loro gusti tradizionali, più orientati alo zucchero ed al sapore dolce, così di moda nel vecchio continente...
Lo zucchero - importato dagli Arabi in Europa - era la vera passione dell'epoca (17°-18° secolo), ed il suo possesso - così come in precedenza quello del sale - veniva spesso associato alla ricchezza, all'opulenza della tavola.



La cioccolata - diversamente dalle altre pregiate spezie - fu inizialmente accolta con freddezza in Europa, ma qualche cuoco di corte provò ad addolcirla usando lo zucchero per farne  un uso più consono al gusto occidentale.
Invece di usare pepe e peperoncino si iniziò ad usare miele, zucchero, vaniglia e persino ambra. Il composto mantenne però il nome datole da un altro popolo americano, gli Atzechi, ovvero xocolatl , che fu poi occidentalizzato in chocolat, choccolate, e quindi cioccolata.

La bevanda (poiché il suo uso principale rimase a lungo questo..) divenne un segno di  ricchezza e nobiltà, un privilegio degli aristocratici, e quindi un simbolo di vita agiata ed oziosa, soprattutto lungo il  18° secolo, un'epoca in cui si diffonde l'idea  di un  "cibo di classe", spartiacque tra nobiltà decadente e borghesia nascente, per cui  si contrappone l'immagine dei pomeriggi oziosi dei nobili, passati nelle ville di campagna, bevendo cioccolata, a quella dei mercanti e gli intellettuali che, operosi in città,  preferiscono il caffè.



Il '700 rappresenta anche il momento in cui inizia la produzione di cioccolata solida, che avrà  grande successo in Europa.


La cioccolata avrà poi un inatteso successo anche tra i religiosi, poichè permessa nei giorni di digiuno, e mentre  in Spagna  si continuerà a lungo a preparala con l'acqua, in Italia inizia ad essere aggiunta al latte.
Durante questo secolo la cioccolata fu oggetto di molti esperimenti, per cui si provò ad accostarla all'ambra, al gelsomino, alla birra e persino al vino, per creare nuove bevande energetiche !
Alcune sperimentazioni culinarie attorno al cacao sono però diventate uno standard nella cucina "fusion" moderna, per cui non è raro trovare carne e verdura accostata al cacao, e se oggi qualcuno dicesse che la cioccolata è buona anche salata, beh.. non ci stupiremmo più di tanto !



Per noi amanti della cioccolata dolce però il vero godimento è ancora nelle classiche associazioni dolci, e da quando il cacao ha felicemente incontrato le noci (Nut, in inglese), non possiamo fare a meno della nostre dose quotidiana di Nutella. O no?



N.B. Le notizie e le curiosità sono state tratte dal volume: Il riposo della polpetta - di Massimo Montanari (Laterza ed.)

lunedì 13 maggio 2013

When the moon's in the sky, like a big pizza pie...

Incredibile ma vero: esiste una ORIGINAL NEW YORK PIZZA!  Basta andare su wikipedia ( o altre fonti più o meno affidabili della cultura di massa web) per imbattersi in  questo articolo, con tanto di foto, storia, aneddoti e quant'altro.
Essendo noi curiosi come i gatti, siamo andati a leggercelo, e siccome il contributo è in inglese abbiamo deciso di darne  una breve sintesi anche qui:

In sostanza la pizza di New York è una leggera variazione della classica Margherita, dalle dimensioni molto più grandi, più spessa e traboccante di formaggi di dubbia provenienza, in cui la mozzarella gioca solo una parte....



E' la classica pizza che si vede nei TV serial made in USA, che viaggia con i pony express e ti arriva a casa già porzionata nella sua scatola quadrata...

Secondo la tradizione la Pizza New York style la prima pizzeria italiana a New York fu fondata nel 1905 - chiaramente a Little Italy - da  un tale Gennaro Lombardi, ed il suo locale ben presto divenne famoso tra i nostri immigrati a Manhattan, che iniziarono a lodare la classica  pizza Lombardi's.


La pizza costava 5 centesimi, e visto il successo, un collaboratore del locale, un fornaio dalle origini  indiscutibilmente napoletane, Antonio "Totonno" Pero pensò di esportarla a Coney Island, quindi verso il mare, aprendo un suo locale e cominciando a venderla come street food, a pezzi, in modo da essere mangiata anche in strada, senza bisogno di sedere nel suo locale!


Secondo il sito nel 2010 a New York esistevano più di 400 pizzerie specializzate, senza contare che molti fast food (pensiamo alla catena Pizza Hut) la vendono insieme agli altri cibi.

In conclusione la pizza è ormai un cibo Newyorchese in ogni senso, con una sua storia ed una sua evoluzione, come l'hot dog, il bagel e l'hamburger.

martedì 30 aprile 2013

French fries, chips, pommes frites: insomma patatine !

Quando i conquistadores  scoprirono la patata in Perù e la introdussero in Europa, il tubero non sembrò entusiasmare il popolo, né tanto meno i cuochi delle corti del '500.
Il fatto che fosse una radice, cresciuta sotto terra, senza alcun "fiore" che spuntasse dal terreno la avvicinava  più ad un cibo per animali (cavalli o asini) che non ad una pietanza da tavola: d'altronde gli Spagnoli (i primi ad esaminarla) non sapevano neppure come cucinarla! Qualcuno propose di mangiarla cruda, molti pensarono di farne della farina, così come all'epoca si faceva con le castagne, ma il risultato fu del tutto inaccettabile.


Poi la fame, le carestie del '500 ebbero il sopravvento, ed allora i contadini furono costretti a piantarla nei loro orti, per placare la fame generale. Spesso però si consumava cruda, come  una verdura da insalata, e sebbene il suo sapore fosse inconsistente, l'apporto calorico era presente.
Solo nel '700 un agronomo italiano -  Giovanni Battarra - le consiglia per placare la fame dei contadini, limitandone perciò l'uso ed il consumo (lesse per  lo più) alla classe più bassa. Non era sicuramente un cibo da Re!


La relativa facilità con cui la patata poteva essere coltivata un po' ovunque in Europa ne segnò il destino: sempre  più spesso venne consigliata nei tempi di carestia, spesso accanto al mais - altra importante scoperta alimentare dalle Americhe, alla base della moderna polenta - pur mantenendo lo spirito di cibo povero!
Durante il 19° secolo l'Inghilterra fece dell'Irlanda la propria riserva di patate, così che il tubero divenne ben presto il simbolo stesso dell'alimentazione irlandese, ma  quando tra il 1845 ed il 1846 una grande carestia decimò la raccolta di patate, ben un terzo del popolo irlandese fu costretto a lasciare la patria, dando inizio alla celebre emigrazione verso gli Stati Uniti...
In Italia sarà Pellegrino Artusi a "nobilitarla" a partire dalla fine del 19° secolo, suggerendone varie modalità di utilizzo e cottura, tra cui rosolate, ridotte a purè e fritte.


In Europa altri tentativi di cottura erano stati intrapresi nel passato, ma ancora  prevaleva la moda di farne polenta, mentre i vari tentativi di ridurla a farina per farne il pane erano falliti.
Le patate erano invece ottime per la preparazione degli gnocchi, un piatto storico in  Italia, presente già nel medioevo, e precedentemente preparati colo con il pane.
La frittura è un tipo di cottura tipico dell'Europa, un metodo che vuole "nobilitare" il cibo con l'aggiunta di grassi saturi (lardo o olio), mentre nelle Americhe questa cottura era del tutto assente.
Ecco quindi che un prodotto tipico del nuovo mondo va ad incrociare la cottura tipica europea per eccellenza, in un ottimo esempio di sintesi culinaria!



La contesa circa l'invenzione delle patatine fritte è lunga e lungi dall'essere finita: i Francesi ne rivendicano la primogenitura, non  a caso in USA le patatine vengono chiamate French fries, ma i belgi di oppongono a questa tesi ed assicurano che l'idea originaria fu la loro, e sottolineano il fatto che le patatine perfette devono essere fritte ben 2 volte!
Curiosamente in Germania - che delle patate ha una cultura nazionale - la frittura arriva tardi, dopo che il tubero era stato già cotto, bollito, arrostito, trasformato in gnocchi ecc... A Berlino così come a Monaco infatti le patatine vengono chiamate Pommes Frites, un nome che ne avvalora l'origine d'oltralpe.


In Inghilterra si  chiamano chips, e vengono spesso associate al fish, creando un piatto che può a buon titolo essere definito un unicum britannico; patate e merluzzo fritti insieme, nello stesso burro, e spesso condite con l'aceto (non la maionese, né il  ketchup, che vengono visti come accostamenti barbari) e servite nei sacchetti di carta.



La mondializzazione dello stile Mac Donald's ha  poi contribuito a farne  una vivanda universale, forse appiattendone le differenze nazionali, cercando di uniformarne il gusto, ma sicuramente rendendo le patatine fritte il contorno più celebre al mondo.


lunedì 22 aprile 2013

Il vino dei conventi e quello delle taverne


La fine di Aprile e l'inizio di Maggio a Narni sono indissolubilmente legati alla Festa con la F maiuscola: i festeggiamenti in onore del Patrono San Giovenale, il corteo, la corsa in campo, i musici, gli spettacoli e le taverne.

E' l'occasione giusta, allora, per parlare un po' del vino, la bevanda principe del medioevo, insidiata dalla cervogia, ma solo nel nord  Italia, mentre il resto dello stivale resta fortemente ancorato al succo d'uva, che però si beveva  in un modo molto differente da ciò che ci immaginiamo.
Ecco allora qualche spunto di riflessione, e qualche curiosità al riguardo:



Durante i primi anni del Medioevo, nei territori un tempo occupati dai Romani, la produzione di vino diminuisce ed allora  lo sviluppo della viticoltura si deve in gran parte ai conventi, che lentamente si trasformano in veri e propri centri vitivinicoli, ad opera di monaci che sin dall'inizio si dedicarono alla nobile arte del vino,  in quanto elemento indispensabile durante la messa e simbolo liturgico del sangue di Cristo. 

Questo contribuì notevolmente all'espansione della viticoltura anche in molte zone dove essa non era propriamente parte delle tradizioni locali, ma  la coltivazione della vite è solo uno dei tanti aspetti e dei tanti lavori portati avanti nei monasteri , anche se tra i più importanti e redditizi...



Il vino medievale era suddiviso in tre qualità:
La prima - il "vino" vero e proprio - era ottenuta con una blanda spremitura e produceva un succo naturale e corposo; questo era il prodotto migliore e solo i ricchi potevano permetterselo. 
La seconda spremitura, più vigorosa, offriva un succo di qualità inferiore, il "vinello" probabilmente bevuto dal clero. 
Infine la terza, che generava un quasi vino chiamato "acquerello", consumato dai poveri e ricavato aggiungendo acqua alla poltiglia delle vinacce. 
Per rinforzare gli aromi, il vino medievale era spesso "condito" ripetutamente - così come in passato - con erbe, spezie, miele e assenzio, mentre per essere conservato fino a tre o quattro anni veniva bollito, pena la perdita dei tre quarti della sua qualità.



Aldilà di queste "adulterazioni" bisogna ricordare che il vino nel medioevo raramente viene bevuto puro, forse perchè troppo forte, e quindi l'annacquamento della bevanda è comune, tanto frequente  che lo stesso verbo che oggi usiamo per descrivere l'atto di versare il vino mescere, deriva proprio dall'uso di mescolare vino ed acqua!
Durante i secoli  che caratterizzano il medioevo vino, e soprattutto il "buon" vino, è  sinonimo di ricchezza e prestigio, e l'eccellere nella produzione di qualità diventa per alcuni ordini ecclesiastici quasi una ragione di vita.  
I Benedettini, diffusi in tutta Europa, erano famosi per il loro vino e per il consumo - non proprio moderato - che ne facevano.



I "Carmina Burana" descrivono - ironicamente - la bontà del vino del convento, che però è riservato solo all'abate ed ai priori, mentre il popolino è costretto a bere il vinello.
Il potere della "vermiglia bevanda", diventa ben presto bersaglio satirico del popolo costretto alla sua astinenza. Con il consueto lazzo di spirito popolare, ecco una versione "alcolica" del Pater Noster, tradotta dal latino: 
"Padre Bacco che sei nei boccali,
sian santificate le tue vendemmie,
venga il tuo tempo di fermentazione,
facci ben bere del buon vino quotidiano,
offri a noi grandi bevute come noi le rioffriremo ad altri,
inducici con le tue tentazioni aromatiche,
e liberaci dall'acqua."

Dopo il Mille, accanto alla viticoltura ecclesiastica e signorile, si affianca quella della nascente borghesia mercantile che intravedeva nella produzione e nel commercio dei vini nuove strade per profitti sicuri e redditizi. Da genere destinato all'alimentazione e agli usi liturgici, il vino diviene un bene ricercato, moneta di scambio e fonte di ricchezza per produttori e commercianti.



Ecco una ricetta di una celebre bevanda a base di vino nel Medioevo:

Ippocrasso Vino medievale
Ingredienti:
1 litro di vino rosso (ma si può fare anche col bianco), miele liquido 200 g, cannella in stecca pestata 8 g, zenzero fresco sbucciato e tagliato a fettine 8 g (sarebbe meglio altrettanta galanga, che assomiglia allo zenzero ma è più delicata, però è difficile da trovare), pochi grani del paradiso pestati (anche loro sono difficili da trovare, se non li trovate, sostituiteli con cardamomo).
Versate il vino in una brocca. Mescolate in una ciotola tutte le spezie, aggiungetele al vino assieme al miele e miscelate. Lasciate riposare per almeno 12 ore, ma anche 2 giorni, più riposa meglio è. Filtrate e passate in frigorifero, va servito a 10° di temperatura.


domenica 14 aprile 2013

La tradizione delle birre primaverili: la Märzen Bier

La Märzen Bier (ovvero Birra di Marzo) ha una lunga tradizione in Germania, e la sua produzione è addirittura alla base dell'invenzione dell'Oktoberfest di Monaco (ne abbiamo già parlato nel blog, proprio con questo  post) ed è strettamente legata alla storia stessa dell'economia "rurale" tedesca.


 La Märzen è una birra della famiglia delle pale lager, le cui origini risalgono al XVII secolo, a bassa fermentazione, più forte di una lager comune, ed è prodotta mantenendo le temperature inferiori a 10 gradi durante il processo di birrificazione.
Il suo nome deriva dal mese di marzo (in tedesco: März) proprio perché prodotta alla fine della stagione birraria.
La celebre legge bavarese del 1539 – che è alla base della produzione della classica bionda tedesca - stabiliva infatti che la produzione di birra era consentita soltanto tra le festività di san Michele, il 29 settembre, e di san Giorgio, il 23 aprile.


Durante l’estate la produzione era vietata per il pericolo di incendi all'interno delle distillerie (che spesso si trovavano negli scantinati di case private, al centro delle città..) ed allora  con un sigillo ufficiale si chiudevano  le caldaie di miscela.



 In assenza di refrigerazione artificiale, per evitare che la birra perdesse sapore e tenore alcolico, i mastri birrai bavaresi crearono questa birra più alcolica e ricca di luppolo, che può conservarsi per circa sei mesi, così da resistere ai mesi estivi ed essere consumata in settembre-ottobre.
Proprio per questo la Oktoberfestbier, la birra servita ogni anno all'Oktoberfest di Monaco, festa che si tiene a partire da metà settembre, è una Märzen Bier.



In Germania questa birra è abbastanza robusta, con un forte  sapore di malto, ed un colore che varia tra il marrone pallido e il marrone scuro.
In Nord America è invece  più forte, e decisamente più amara. In Austria invece il termine Märzen indica invece una birra che tende ad assomigliare alle helles quanto a colore, corpo e sapore: è la tipologia di birra austriaca più popolare.


Tra i vari nomi con cui è conosciuta ricordiamo: Märzenbier, Festbier, Oktoberfestbier e Wiener Märzen.

giovedì 4 aprile 2013

Cum Grano Salis

Oggi parliamo un po' del sale, non delle sue caratteristiche chimiche, né di quelle culinarie, bensì del suo peso all'interno della nostra cultura orale tradizionale.





Il Sale è un elemento molto importante nell'alimentazione ed è  carico di simbologie fin dai tempi più remoti. Era previsto nei riti sacrificali da Ebrei, Greci e Romani come simbolo d'incorruttibilità; veniva sparso sulle rovine delle città nemiche rase al suolo a simboleggiare la futura sterilità della zona; era considerato sicura protezione contro gli influssi maligni con particolare riguardo alle streghe.



Dal tempo dei Longobardi in poi, se offerto insieme al pane, era il segno dell'accettazione di un ospite straniero e della sua inviolabilità. Nel Battesimo verrà poi esorcizzato e posto in bocca al battezzando a simboleggiare la forza spirituale e l'incorruttibilità morale della sapienza, dopo che Cristo ebbe definito “sale della terra” i propri discepoli (Matteo,5,13) in quanto votati a dare “sapore” alla vita, e quindi a darle significato, mediante la diffusione della parola di Dio e salvando così il mondo dalla corruzione.

Nella tradizione popolare il sale a tavola non deve essere mai versato, perché la sua caduta accidentale porta sfortuna, in quanto considerato simbolo di ricchezza che così andrebbe sprecato; nel caso in cui questo incidente avvenga, bisogna subito gettarne un po' dietro la schiena per prevenire la venuta degli spiriti maligni!

In alcune culture orientali il sale serve anche a purificare la terra, prima di un evento: in Giappone i lottatori di Sumo lo gettano infatti sul tatami prima degli incontri:




Molti termini moderni derivano dall'uso del sale, dalla sua esistenza all'interno del sistema sociale diremmo: la parola Salario - ad esempio - è ancora fortemente legata all'uso di pagare i soldati dell'esercito Romano con grandi quantità di sale, un elemento essenziale per la conservazione della carne, di grande importanza nel mondo classico.
Il "peso economico" del sale è d'altronde ben presente anche nella sua aggettivazione: una merce molto costosa è salata, il prezzo è salato, ecc.... Ciò rafforza l'idea del sale come sinonimo di oggetto di gran pregio e valore!



La lingua italiana -grazie alla cultura alimentare del nostro paese, che sin dall'epoca classica ha basato molto della sua esistenza sull'uso del sale (basti pensare all'importanza di una strada consolare come la Salaria, che fu costruita proprio per lasciar passare i carichi di sale verso Roma..) riflette questa radice in molti modi di dire, eccone alcuni, tra i più comuni:

Avere il sale in zucca: essere intelligenti
Cum grano salis: capire qualcosa non soffermandosi sull'aspetto superficiale
Essere il sale della terra: essere molto colti, indispensabili
Essere senza sale (sciapo): essere scialbo, insulso
Mettere il sale sulla coda (catturare qualcuno arrivandogli molto vicino
Rimanere di sale: restare immobili, stupefatti (con riferimento alla moglie del biblico Lot)
Spargere sale sulle ferite: aggravare un dolore, una situazione spiacevole

Alcuni proverbi regionali poi ricorrono al sale per evidenziare la propria saggezza popolare  ad esempio in Toscana si dice: Prima di scegliersi un amico bisogna averci mangiato il sale sette anni: ed a Napoli: Omo senza vizi è menestra senza sale !

In conclusione, visto che la curiosità è il sale della vita, speriamo di aver sfamato qualche lettore !