domenica 30 giugno 2013

La geografia occulta del consumismo: una gita al supermercato

Vi siete mai chiesti come mai la maggior parte dei centri commerciali, o i grandi supermercati siano organizzati in modo simile al loro interno?  Cosa si nasconde dietro quella che potremmo definire "l'architettura del consumo moderno"? C'è un disegno comune alla base dei nostri acquisti, sempre più spesso compulsivi? 

Un articolo che lessi alcuni anni fa in una rivista tedesca gettò una luce particolare sui meccanismi artificiali che creano il consumismo ossessivo in alcuni spazi, tipo i Centri Commerciali o i grandi supermercati. 
In quel tempo non ero ancora del tutto consapevole delle varie strategie del marketing e - a dire  il vero - la faccenda sembrava più un argomento da Einkaufszentren tedeschi, o al massimo adatto alle Shopping Mall made in USA, visto che in Italia i primi grandi centri commerciali risalgono ormai agli anni 90... 



Oggi però anche l'Italia è un paese a forte connotazione consumistica, e molti aspetti di quelle teorie, inizialmente estranee alle nostre spese quotidiane, fatte di botteghe e mercati pubblici, sono ben noti a chiunque abbia familiarità con i grandi centri commerciali.

Il supermercato è  una città virtuale, dove le mura sono fatte di lattine, cartoni per il latte, e le salite sono rimpiazzate da montagne di frutta; tutte le strade poi ci portano immancabilmente verso delle magiche casse  che emettono toni musicali. Questo è il mondo che ci spinge - spesso inconsapevolmente -  a comprare sempre di più rispetto a ciò di cui abbiano bisogno, e che ci invita insomma a restare più a lungo del necessario....

Quasi ogni supermercato inizia da destra; l'uomo si orienta meglio a destra, guida a destra e lo sguardo passa da destra a sinistra. A destra gli scaffali sono colorati, pieni di ogni ben di Dio. Appena dopo l'entrata luccicano già i pomodori, le mele, e l'insalata sembra ancora umida di campo.
Dopo la frutta e la verdura inizia il labirinto degli scaffali. Decine, centinaia di metri con ripiani frigo pieni di yogurt, formaggi freschi e latte.



Camminando seguiamo inconsapevolmente il procedere della giornata: alla mattina la colazione, quindi latte e youghurt, e visto che il latte viene esposto alla fine del frigo, l'occhio si posa immancabilmente sui prodotti affini. Improvvisamente, a sinistra, inizia la teoria del caffè e del thé, e poi le marmellate e le creme spalmabili.

Gli psicologi del marketing ordinano la merce seguendo i nostri impulsi ed il nostro orientamento quotidiano. Ci muoviamo - per così dire - nel tempo, oltre che nello spazio. Quindi si passa al pranzo, con pasta, zuppe e conserve.  
Allora seguirà  la zona sera: vino, birra, alcol, e poi cioccolata, per concludere la serata.
Ogni gruppo merceologico segue un principio comune.  Tutti ad esempio ci laviamo i denti la mattina, poi ci laviamo, quindi i dentifrici precedono il sapone.

Passiamo ora al reparto "freschi", il reparto salumi e formaggi. Il cliente incontra per la prima volta il personale, qui può chiedere consiglio, può informarsi, e qui passa più tempo in attesa. 



Forse non tutti sanno che al fine di far risaltare la freschezza della carne (soprattutto nel frigo) vengono poste alla base degli scaffali delle piccole luci rossastre, orientate da sinistra a destra, in modo che la carne sembri più rossa (il nostro cervello associa il rosso al sangue e quindi alla carne) sebbene in alcuni casi - come per il pollame - ciò non sia necessario.

Questo colore in effetti "sostiene" la normale colorazione della carne, così come il reparto latticini godrà sempre di una luce più bianca del necessario, e non a caso spesso i due banchi frigo sono posizionati l'uno accanto al'altro, per esaltare ancora di più questa differenza cromatica!



Le offerte speciali vivono invece in delle "isole" speciali, tra gli scaffali, magari sistemate a mo' di piccole montagne (le acque minerali, i dolci, il panettone a Natale..), vere e proprie "zone pedonali" dove soffermarsi necessariamente prima di potersi infilare in un'altra teoria di scaffali. 

La disposizione della merce negli scaffali è anch'essa pensata a tavolino: i prodotti di marca, più cari, sostenuti dalla pubblicità si troveranno sempre al centro dei ripiani, ad altezza di occhio (cioè tra la nostra testa ed il busto) in modo che non dovremmo piegarci o alzarci innaturalmente per prenderli.
In basso o in alto i prodotti meno commercializzati, oppure quelli indispensabili (di cui comunque abbiamo bisogno) come la carta igienica...



Dopo una media di 20/30 minuti approdiamo finalmente alle casse. Ma qui l'attesa è lunga, quindi poco prima di pagare saremo attratti dalle ultime sirene: cioccolatini, gomme, magari lamette da barba, oppure, pensando alla serata, profilattici... Tutta merce che era inizialmente esclusa dalla nostra lista, ma che ora, in coda, afferriamo automaticamente prima di uscire...




All'uscita ci rendiamo conto di aver acquistato dal 20 al 30% in più di quanto previsto, ma questo i ricercatori del marketing lo sanno già...

venerdì 7 giugno 2013

Gli orti di città e la campagna Umbra

La tradizione culinaria in Umbria viaggia – si potrebbe dire – lungo due percorsi abbastanza definiti: quello vegetale e quello animale, che spesso  si incontrano  e si contaminano a vicenda. L’Umbria  può infatti essere definita come lo spartiacque geografico tra la “Romania” e la “Longobardia”, con una lunga storia di sovrapposizioni ed incroci  politici tra lo Stato della Chiesa ed i ducati Longobardi (si pensi a Spoleto), ed entrambe le dominazioni hanno contribuito  a formare una sorta di koinè alimentare umbra: dall’uso dei cereali, con i diversi tipi di panificazione, allo sfruttamento del maiale (per cui Norcia diventa addirittura una “capitale” culturale della lavorazione),  questi due mondi si incontrano sulle nostre tavole da secoli.



Il maiale, in ogni sua declinazione (dall’arrosto ai salumi) ha sempre giocato un ruolo importante nelle nostre cucine: la lavorazione della sua carne è da tempo immemorabile  un momento di unione, di convivio, di “pacificazione” tra famiglie e vicinanze addirittura, ed ogni operazione relativa alla sua preparazione coinvolge interi gruppi familiari sia in campagna che nelle piccole città.

La carne però è spesso un lusso, e durante i periodi di carestia - dal medioevo al 19° secolo –  il suo uso è fortemente limitato,  quindi alla base dell’alimentazione “di massa” ci sono le verdure, le erbe, i frutti della terra che vengono cucinati e serviti in ogni combinazione possibile.



L’importanza delle “verdure basse”, quelle che ogni cittadino può coltivare nel proprio orto, è allora fondamentale per la nostra cucina, e - ben prima dell’arrivo dei frutti esotici e del pomodoro, che arricchiranno i nostri giardini  solo a partire dal 17° secolo – le erbe naturali entrano nella nostra cultura popolare, come sinonimo di cibo povero ma essenziale,  per cui, quando dalle  nostre parti si fa riferimento al cibo semplice, si dice “mangiare pane e cicoria” !

Alcune erbe di campo sono  da sempre alla base della cucina popolare Umbra, e la conoscenza di un territorio e delle sue piante sono fondamentali per trasmettere cultura locale,  prima a livello orale, quindi in forma scritta, nelle ricette casalinghe, quindi nei ricettari.



Certe erbe non hanno nemmeno un nome definito, vengono incluse nel termine “misticanza”, che indica genericamente un’insalata mista, eppure le donne e gli uomini della nostra terra le conoscono dall'alba dei tempi, mentre spesso i botanici e gli scienziati ne ignorano l’uso e la stessa esistenza. In questo senso la cultura  popolare le ha veicolate verso il presente, senza bisogno di essere definite.

Nei periodi di magra, in pieno inverno, o durante le frequenti carestie, le erbe prendono il posto della carne, ovvero – se possibile – la accompagnano abbondantemente per supplire alla carenza di calorie; l’orto privato, domestico, o vicinale gioca in questo senso un ruolo fondamentale per l’alimentazione del gruppo-famiglia, e la stessa geografia urbana delle nostre città  (almeno fino ai primi anni del ‘900) veniva caratterizzata da un continuo alternarsi di mura ed orti, di giardini privati e semplici passaggi naturali verso le porte della città.



La tradizione delle passeggiate “extra moenia” a caccia di cicoria, raponzoli, valeriana, asparagi ed altre erbe è sopravvissuta fino ai giorni nostri, e soprattutto nei piccoli centri medievali non è raro imbattersi in anziani signori che si calano in fossi e percorrono strade poco battute durante le ore più calde del giorno, alla ricerca delle preziose erbe.

Si dice “erbe di campo” e si pensa ai fossi, ai prati, alla vegetazione spontanea che arricchisce le tavole a cavallo tra inverno e primavera, insalate dai gusti diversi, più amare di quelle coltivate e dai nomi curiosi, popolari (visto che – come abbiamo detto – non ne hanno di scientifici) che richiamano alla memoria il loro “uso” o la forma particolare: bietole, puntarelle, caccialepri, raponzoli, che si sposano all’aceto bollito, all’aglio, alla salsa di acciughe ed aceto, seguendo anch'esse una “nobilitazione” de facto.

Nel Medioevo i monaci chiamavano queste erbe “Provvidenza”, legando la loro  comparsa alla benevolenza di Dio;  un alimento che non necessita di lavoro quindi, un dono inatteso della terra, e mentre la regola benedettina spinge al lavoro nei campi (ora et labora) gli eremiti preferiscono vivere di elemosina, ed amano di conseguenza questo cibo “divino”.



La maggior parte degli uomini (in campagna, e nelle nuove città nel medioevo) cercano però una sintesi, e così coltivano il campo, zappano, arano, ma poi accolgono con gioia anche queste erbe spontanee.
Gli orti nel medioevo sono straordinari luoghi di sperimentazione, dove i saperi agronomici e le pratiche  di coltivazione si incrociano, e danno vita a veri e propri percorsi ideali e materiali. L’orto fornisce  il cibo (erbe, frutta, verdura e spesso cereali per preparare  il pane) ed assolve così alla sua funzione primaria, ma allo stesso tempo ripropone  uno spazio ideale, mistico (si pensi ai giardini zen della tradizione orientale), dove  il credente può addirittura ripercorrere i sentieri dell’eden, circondato da piante, colori ed odori che richiamano una spiritualità ascetica.
Le piante selvatiche, di campo, vengono lentamente addomesticate, e così i finocchi ed i cardi vengono  addolciti dagli orticoltori, che li trapiantano nei giardini strappandoli alla natura “salvatica” del bosco, del campo appunto.



Nei secoli le erbe selvatiche hanno persino contribuito alla ricerca affannosa del pane, il vero elemento culturale italiano, tanto importante nella nostra storia da aver contaminato il linguaggio, per cui l’italiano è l’unica lingua che  prevede l’espressione “pane e companatico”, da cui si desume che l’alimento centrale è il pane, il resto è con il pane.  Questa centralità del pane (insieme a quella dell’olio) è – in parte – retaggio del cristianesimo, per cui la stessa transustanziazione vede il corpo di Cristo farsi pane per noi, ed il pane quotidiano è l’elemento portante addirittura del Padre Nostro.




Nei tempi  di carestia però, soprattutto nell’alto Medioevo e durante i lunghi periodi bellici, i cereali alti (grano) e quelli bassi (spelta, miglio..) scompaiono dalla tavola, ed allora non sono rari i casi di improbabili tentativi di panificazione con erbe di campo, persino con erbacce, che venivano macinate e trasformate in pagnotte, dal dubbio potere nutritivo e sostanzialmente immangiabili, se  non nocive per l’uomo. L’unico succedaneo del grano (naturalmente prima della comparsa del mais in Europa)  che ebbe fortuna fu la castagna: cotta, sminuzzata, tritata e trasformata in farina, da vita a quello che forse è il primo dolce nazionale: il castagnaccio.  



Non è un caso che il castagno sia anche chiamato “albero del pane” e la sua presenza all'interno degli orti vicinali o in quelli privati diventa nei secoli una costante anche in Umbria, accanto all'ulivo