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venerdì 29 novembre 2013

La leggenda dell'albero di Natale

Il periodo dell’Avvento bussa alle porte, ed allora è tempo per una bella storia natalizia, una di quelle che piacciono tanto ai bambini (ed agli adulti), da leggere insieme, volendo.



Il primissimo albero di Natale

Babbo Natale stava attraversando il bosco. Era di cattivo umore. Il suo cagnolino bianco, che di solito gli correva davanti con gioia, se n'accorse e s'insinuò dietro il suo padrone con la coda tra le gambe. Non provava più soddisfazione nel suo lavoro. Tutti gli anni era la stessa storia. Non c'era più entusiasmo. Giocattoli, cibi, alla lunga non servivano più. I bambini si divertivano certamente, ma lui voleva che urlassero, esultassero, e cantassero, ma ormai lo facevano sempre più di rado.

Babbo Natale si era lambiccato il cervello tutto il mese di dicembre per escogitare qualcosa che riportasse la vera gioia natalizia nel mondo dei bambini, una gioia a cui prendessero parte anche gli adulti. Ma niente.
Così procedeva faticosamente dentro la foresta innevata, fino a quando non giunse ad un incrocio. Lì aveva un appuntamento con Gesù Bambino, con il quale si consigliava sempre sulla distribuzione dei doni. Già da lontano vide che Gesù Bambino era già arrivato, perché in quel punto c'era un chiarore luminoso.

Il Bambin Gesù indossava un abitino bianco di pelliccia e il suo volto era tutto un sorriso: "Come va, vecchio mio?", chiese Gesù bambino. "Hai la luna storta?" Allora se lo prese a braccetto e andò via con lui. Dietro di loro trotterellava il cagnolino, ma non sembrava più triste e la coda ora era alzata, baldanzosa.
"Sì", disse Babbo Natale, " non mi diverto più. Che sia colpa dell'età o d'altro, non lo so. Il fatto è che dopo i dolcetti, le mele e le nocciole, è finito tutto. Finiscono di mangiarle e la festa è finita. Bisognerebbe trovare qualcosa di nuovo."Gesù Bambino fece un cenno di approvazione con la testa ed assunse un'espressione pensierosa; poi disse: "Hai ragione, vecchio mio, ci ho pensato anch’io, ma non è così facile." "E' proprio questo" brontolò Babbo Natale, "sono ormai troppo vecchio e troppo sciocco. Mi è già venuto un bel mal di testa a forza di pensarci, ma non mi viene in mente proprio niente di divertente".

Pensierosi, andarono entrambi attraverso il bosco bianco, Babbo Natale con il volto burbero e Gesù Bambino meditabondo. Nella foresta tutto era silenzioso, non si muoveva niente, soltanto quando la civetta si sedeva sopra un ramo, cadeva, con un rumore sommesso, un pezzetto di quella specie di decorazione che forma la neve appena caduta. La luna splendeva chiara e luminosa, tutte le stelle luccicavano, la neve pareva argento e gli abeti stavano lì, neri e bianchi, era proprio uno splendore.

Un abete alto cinque piedi che stava da solo in primo piano appariva particolarmente incantevole. Era ben proporzionato, su ogni ramo c'era una striatura di neve, sulle punte dei rami dei piccoli ghiaccioli, e così scintillava e luccicava al chiaro di luna. Gesù Bambino lasciò andare il braccio di Babbo Natale e diede un piccolo colpo al vecchietto in segno d'intesa, indicò l'abete e disse: "Non è semplicemente meraviglioso?" "Sì", disse il vecchietto, "ma questo a cosa mi serve?". "Tira fuori un paio di mele", disse il Bambin Gesù, "mi è venuta un'idea."Babbo Natale fece una faccia stupita perché non riusciva a immaginare come a Gesù Bambino fosse venuto voglia di mangiare delle mele ghiacciate con quel freddo.

Staccò la sua cinghia, adagiò il suo enorme sacco nella neve, frugò dentro e allungò un paio di belle mele."Adesso tagliami qualche cordicella in due pezzi lunghi un dito e fammi dei piccoli paletti", disse Gesù Bambino. Al vecchietto tutto questo parve un po' buffo, ma non disse nulla e fece quello che gli aveva detto Gesù Bambino. Quando ebbe preparato le cordicelle e i paletti, Gesù Bambino prese una mela, gl'infilò dentro un paletto, legò attorno il filo e lo appese ad un ramo.

"Così", disse, "ed ora tocca agli altri e tu mi puoi aiutare, ma fa attenzione, che non cada giù neppure un fiocco di neve!" Il vecchietto lo aiutò, sebbene non sapesse perché, ma la cosa lo divertiva e non appena l'intero alberello fu carico di belle mele rosse, si allontanò cinque passi, si mise a ridere e disse: "Guarda, quanto è grazioso! Ma che senso ha tutto ciò?". "C'è proprio bisogno che tutto abbia uno scopo?" rise Gesù Bambino. "Stai attento, che lo faccio ancora più bello. Adesso dammi anche le nocciole!"

Il vecchietto fece scivolare fuori del suo sacco delle noci e le diede a Gesù Bambino. Infilò in ognuna un bastoncino, ci attaccò un filo e l'appese tra le mele. "Cosa ne dici adesso, vecchio mio?" domandò, "non è la cosa più bella del mondo?". "Si", disse, "ma non so ancora..." "Vieni dai!" rise Gesù Bambino. "Hai delle luci?".Ora, l'alberello stava lì sulla neve, dai suoi rami innevati facevano bella mostra di sé le mele rubiconde, le nocciole d'oro e d'argento brillavano e luccicavano, e le candele di cera gialle ardevano festosamente. Con il suo viso bianco e roseo Gesù Bambino era tutto sorridente e batteva le mani, il vecchio Babbo Natale non sembrava più così di cattivo umore e il cagnolino saltava di qua e di là e abbaiava. Quando le luci ebbero finito un poco di bruciare, Gesù Bambino agitò le sue ali d'oro e d'argento e le luci si spensero. Disse a Babbo Natale di segare l'alberello con cura.

Poi scesero entrambi dalla montagna portandosi dietro l'alberello variopinto. Quando arrivarono al paese tutti dormivano. Si fermarono alla casa più piccola. Gesù Bambino aprì la porta piano piano ed entrò; Babbo Natale gli venne dietro. Nella stanza c'era uno sgabello a tre gambe. Lo misero sul tavolo e c'infilarono l'albero. Babbo Natale pose sotto l'albero ancora tante belle cose, giocattoli, dolci, mele e nocciole, e poi tutti e due lasciarono la casa in punta dei piedi, come erano entrati. Quando l'uomo a cui apparteneva la casetta, la mattina seguente, si svegliò e vide l'albero variopinto, rimase stupito e non sapeva che cosa dire.

Accese le luci dell'alberello e svegliò la moglie e i bambini. C'era una tale atmosfera di gioia nella casa come non c'era stata mai durante i Natali passati. Nessun bambino badava ai giocattoli, ai dolci, e alle mele, tutti guardavano solamente l'albero con le luci. Si presero per mano, ballarono intorno all'albero e cantarono tutti le canzoni di Natale che sapevano.



Quando fu giorno pieno vennero gli amici e i parenti del minatore, guardarono l'alberello, si rallegrarono e andarono subito nel bosco, per andare a prendersi anche loro un alberello per i loro bambini. Le altre persone che videro questi, li imitarono, ognuno si prese un abete e lo decorò, chi in un modo, chi in un altro, ma luci, mele e nocciole le mettevano tutti quanti. Quando si fece sera ardeva in tutto il villaggio, casa per casa, un albero di Natale, dovunque si sentivano canzoni di Natale e il giubilo e le risa dei bambini.


Da lì l'albero di Natale ha fatto il giro di tutta la Germania e da lì del mondo intero.

martedì 16 luglio 2013

Letture golose per l'estate

L'estate è la stagione delle letture per eccellenza, un periodo in cui un buon libro non si nega a nessuno, complice il relax (sotto l'ombrellone, in montagna, o semplicemente sdraiati all'ombra del giardino..) con la consueta pigrizia del fisico, che finalmente può rallentare  un po' il ritmo frenetico della settimana, tutti noi - chi più chi meno - prendiamo in mano un libro, per goderci la pace delle pagine, o dello schermo, nel caso di E-books.
Visto che questo è un blog che spesso attinge ai libri ed alle letture "di genere" per stimolare la curiosità dei lettori attorno al cibo, alle bevande, alle tradizioni ed alla convivialità in generale, mi sembrava logico consigliare un piccolo libro molto divertente ed istruttivo in questa sede.

Uno dei maggiori esperti italiani di alimentazione e tradizione culinaria è senza dubbio  Massimo Montanari, docente di Storia Medievale a Bologna, eccellente divulgatore ed ottimo scrittore di storie alimentari, con uno stile accessibile anche ai non esperti del ramo: accanto a veri e propri monumenti della letteratura storico-alimentare come la serie del Convivio, Alimentazione e cultura nel Medioevo, La fame e l'abbondanza e tanti altri titoli (quasi tutti editi dalla Laterza) interessanti, il professor Montanari - da qualche anno - si è dato anche alla letteratura di divulgazione più "leggera", proponendo dei godibilissimi volumi che raccontano la storia del cibo dal punto di vista dell'aneddoto, della curiosità, citando leggende e spiegandoci le radici delle nostre abitudini alimentari.

Tra queste ultime opere voglio consigliarvi un titolo: 



Il volume ci accompagna, con leggerezza ed ironia, lungo un cammino fatto di curiosità e storie affascinanti che ripercorre la storia ufficiale e quella orale dei cibi e delle tradizioni conviviali, dall'antica Roma ai Fast Food: 

"Perché il pane è un simbolo di civiltà? Cosa può insegnarci la pasta sul rapporto tra forma e sostanza? Che cosa significa dividere le carni, e non poter dividere la minestra? Ricercare la ricetta perfetta è ideologicamente corretto? Le ricette di cucina hanno qualcosa in comune con le ricette del medico? Perché al barbecue cucinano sempre i maschi? I piccoli gesti della vita quotidiana hanno un senso quasi mai banale. Aiutano a riflettere su quello che accade ogni giorno intorno a noi, sul nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi. "Un'idea a cui sono particolarmente affezionato", scrive Montanari, "è che le pratiche di cucina non solo costituiscono un decisivo tassello del patrimonio culturale di una società, ma in molti casi rivelano meccanismi fondamentali del nostro agire materiale e intellettuale. La cucina può così essere assunta come metafora della vita, a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina".

Allora buona lettura e buone vacanze !

domenica 30 giugno 2013

La geografia occulta del consumismo: una gita al supermercato

Vi siete mai chiesti come mai la maggior parte dei centri commerciali, o i grandi supermercati siano organizzati in modo simile al loro interno?  Cosa si nasconde dietro quella che potremmo definire "l'architettura del consumo moderno"? C'è un disegno comune alla base dei nostri acquisti, sempre più spesso compulsivi? 

Un articolo che lessi alcuni anni fa in una rivista tedesca gettò una luce particolare sui meccanismi artificiali che creano il consumismo ossessivo in alcuni spazi, tipo i Centri Commerciali o i grandi supermercati. 
In quel tempo non ero ancora del tutto consapevole delle varie strategie del marketing e - a dire  il vero - la faccenda sembrava più un argomento da Einkaufszentren tedeschi, o al massimo adatto alle Shopping Mall made in USA, visto che in Italia i primi grandi centri commerciali risalgono ormai agli anni 90... 



Oggi però anche l'Italia è un paese a forte connotazione consumistica, e molti aspetti di quelle teorie, inizialmente estranee alle nostre spese quotidiane, fatte di botteghe e mercati pubblici, sono ben noti a chiunque abbia familiarità con i grandi centri commerciali.

Il supermercato è  una città virtuale, dove le mura sono fatte di lattine, cartoni per il latte, e le salite sono rimpiazzate da montagne di frutta; tutte le strade poi ci portano immancabilmente verso delle magiche casse  che emettono toni musicali. Questo è il mondo che ci spinge - spesso inconsapevolmente -  a comprare sempre di più rispetto a ciò di cui abbiano bisogno, e che ci invita insomma a restare più a lungo del necessario....

Quasi ogni supermercato inizia da destra; l'uomo si orienta meglio a destra, guida a destra e lo sguardo passa da destra a sinistra. A destra gli scaffali sono colorati, pieni di ogni ben di Dio. Appena dopo l'entrata luccicano già i pomodori, le mele, e l'insalata sembra ancora umida di campo.
Dopo la frutta e la verdura inizia il labirinto degli scaffali. Decine, centinaia di metri con ripiani frigo pieni di yogurt, formaggi freschi e latte.



Camminando seguiamo inconsapevolmente il procedere della giornata: alla mattina la colazione, quindi latte e youghurt, e visto che il latte viene esposto alla fine del frigo, l'occhio si posa immancabilmente sui prodotti affini. Improvvisamente, a sinistra, inizia la teoria del caffè e del thé, e poi le marmellate e le creme spalmabili.

Gli psicologi del marketing ordinano la merce seguendo i nostri impulsi ed il nostro orientamento quotidiano. Ci muoviamo - per così dire - nel tempo, oltre che nello spazio. Quindi si passa al pranzo, con pasta, zuppe e conserve.  
Allora seguirà  la zona sera: vino, birra, alcol, e poi cioccolata, per concludere la serata.
Ogni gruppo merceologico segue un principio comune.  Tutti ad esempio ci laviamo i denti la mattina, poi ci laviamo, quindi i dentifrici precedono il sapone.

Passiamo ora al reparto "freschi", il reparto salumi e formaggi. Il cliente incontra per la prima volta il personale, qui può chiedere consiglio, può informarsi, e qui passa più tempo in attesa. 



Forse non tutti sanno che al fine di far risaltare la freschezza della carne (soprattutto nel frigo) vengono poste alla base degli scaffali delle piccole luci rossastre, orientate da sinistra a destra, in modo che la carne sembri più rossa (il nostro cervello associa il rosso al sangue e quindi alla carne) sebbene in alcuni casi - come per il pollame - ciò non sia necessario.

Questo colore in effetti "sostiene" la normale colorazione della carne, così come il reparto latticini godrà sempre di una luce più bianca del necessario, e non a caso spesso i due banchi frigo sono posizionati l'uno accanto al'altro, per esaltare ancora di più questa differenza cromatica!



Le offerte speciali vivono invece in delle "isole" speciali, tra gli scaffali, magari sistemate a mo' di piccole montagne (le acque minerali, i dolci, il panettone a Natale..), vere e proprie "zone pedonali" dove soffermarsi necessariamente prima di potersi infilare in un'altra teoria di scaffali. 

La disposizione della merce negli scaffali è anch'essa pensata a tavolino: i prodotti di marca, più cari, sostenuti dalla pubblicità si troveranno sempre al centro dei ripiani, ad altezza di occhio (cioè tra la nostra testa ed il busto) in modo che non dovremmo piegarci o alzarci innaturalmente per prenderli.
In basso o in alto i prodotti meno commercializzati, oppure quelli indispensabili (di cui comunque abbiamo bisogno) come la carta igienica...



Dopo una media di 20/30 minuti approdiamo finalmente alle casse. Ma qui l'attesa è lunga, quindi poco prima di pagare saremo attratti dalle ultime sirene: cioccolatini, gomme, magari lamette da barba, oppure, pensando alla serata, profilattici... Tutta merce che era inizialmente esclusa dalla nostra lista, ma che ora, in coda, afferriamo automaticamente prima di uscire...




All'uscita ci rendiamo conto di aver acquistato dal 20 al 30% in più di quanto previsto, ma questo i ricercatori del marketing lo sanno già...

giovedì 23 maggio 2013

Cioccolata !

La quintessenza del dolce, il sogno di ogni goloso, la consolazione quotidiana, ovvero sua Maestà la Cioccolata non è sempre stata dolce, lo è diventata, con il tempo, per la nostra gioia.

Con il poco allettante nome di Cacahuatl i Maya indicavano una pianta del centro America, i cui noccioli venivano frantumati e poi bolliti nell'acqua, la bevanda ottenuta veniva poi arricchita con pepe, peperoncino e zenzero, con l'aggiunta sporadica di un po' di miele - per attenuarne il sapore asprigno -  per poi essere bevuta fredda dai sacerdoti durante i riti sacri.  Proprio per questo suo uso "rituale" il "bibitone" venne chiamato Theobroma, ovvero "cibo degli Dei".


I Conquistadores europei furono incuriositi dalla bevanda, ma non la amarono particolarmente, non incontrando i loro gusti tradizionali, più orientati alo zucchero ed al sapore dolce, così di moda nel vecchio continente...
Lo zucchero - importato dagli Arabi in Europa - era la vera passione dell'epoca (17°-18° secolo), ed il suo possesso - così come in precedenza quello del sale - veniva spesso associato alla ricchezza, all'opulenza della tavola.



La cioccolata - diversamente dalle altre pregiate spezie - fu inizialmente accolta con freddezza in Europa, ma qualche cuoco di corte provò ad addolcirla usando lo zucchero per farne  un uso più consono al gusto occidentale.
Invece di usare pepe e peperoncino si iniziò ad usare miele, zucchero, vaniglia e persino ambra. Il composto mantenne però il nome datole da un altro popolo americano, gli Atzechi, ovvero xocolatl , che fu poi occidentalizzato in chocolat, choccolate, e quindi cioccolata.

La bevanda (poiché il suo uso principale rimase a lungo questo..) divenne un segno di  ricchezza e nobiltà, un privilegio degli aristocratici, e quindi un simbolo di vita agiata ed oziosa, soprattutto lungo il  18° secolo, un'epoca in cui si diffonde l'idea  di un  "cibo di classe", spartiacque tra nobiltà decadente e borghesia nascente, per cui  si contrappone l'immagine dei pomeriggi oziosi dei nobili, passati nelle ville di campagna, bevendo cioccolata, a quella dei mercanti e gli intellettuali che, operosi in città,  preferiscono il caffè.



Il '700 rappresenta anche il momento in cui inizia la produzione di cioccolata solida, che avrà  grande successo in Europa.


La cioccolata avrà poi un inatteso successo anche tra i religiosi, poichè permessa nei giorni di digiuno, e mentre  in Spagna  si continuerà a lungo a preparala con l'acqua, in Italia inizia ad essere aggiunta al latte.
Durante questo secolo la cioccolata fu oggetto di molti esperimenti, per cui si provò ad accostarla all'ambra, al gelsomino, alla birra e persino al vino, per creare nuove bevande energetiche !
Alcune sperimentazioni culinarie attorno al cacao sono però diventate uno standard nella cucina "fusion" moderna, per cui non è raro trovare carne e verdura accostata al cacao, e se oggi qualcuno dicesse che la cioccolata è buona anche salata, beh.. non ci stupiremmo più di tanto !



Per noi amanti della cioccolata dolce però il vero godimento è ancora nelle classiche associazioni dolci, e da quando il cacao ha felicemente incontrato le noci (Nut, in inglese), non possiamo fare a meno della nostre dose quotidiana di Nutella. O no?



N.B. Le notizie e le curiosità sono state tratte dal volume: Il riposo della polpetta - di Massimo Montanari (Laterza ed.)

martedì 30 aprile 2013

French fries, chips, pommes frites: insomma patatine !

Quando i conquistadores  scoprirono la patata in Perù e la introdussero in Europa, il tubero non sembrò entusiasmare il popolo, né tanto meno i cuochi delle corti del '500.
Il fatto che fosse una radice, cresciuta sotto terra, senza alcun "fiore" che spuntasse dal terreno la avvicinava  più ad un cibo per animali (cavalli o asini) che non ad una pietanza da tavola: d'altronde gli Spagnoli (i primi ad esaminarla) non sapevano neppure come cucinarla! Qualcuno propose di mangiarla cruda, molti pensarono di farne della farina, così come all'epoca si faceva con le castagne, ma il risultato fu del tutto inaccettabile.


Poi la fame, le carestie del '500 ebbero il sopravvento, ed allora i contadini furono costretti a piantarla nei loro orti, per placare la fame generale. Spesso però si consumava cruda, come  una verdura da insalata, e sebbene il suo sapore fosse inconsistente, l'apporto calorico era presente.
Solo nel '700 un agronomo italiano -  Giovanni Battarra - le consiglia per placare la fame dei contadini, limitandone perciò l'uso ed il consumo (lesse per  lo più) alla classe più bassa. Non era sicuramente un cibo da Re!


La relativa facilità con cui la patata poteva essere coltivata un po' ovunque in Europa ne segnò il destino: sempre  più spesso venne consigliata nei tempi di carestia, spesso accanto al mais - altra importante scoperta alimentare dalle Americhe, alla base della moderna polenta - pur mantenendo lo spirito di cibo povero!
Durante il 19° secolo l'Inghilterra fece dell'Irlanda la propria riserva di patate, così che il tubero divenne ben presto il simbolo stesso dell'alimentazione irlandese, ma  quando tra il 1845 ed il 1846 una grande carestia decimò la raccolta di patate, ben un terzo del popolo irlandese fu costretto a lasciare la patria, dando inizio alla celebre emigrazione verso gli Stati Uniti...
In Italia sarà Pellegrino Artusi a "nobilitarla" a partire dalla fine del 19° secolo, suggerendone varie modalità di utilizzo e cottura, tra cui rosolate, ridotte a purè e fritte.


In Europa altri tentativi di cottura erano stati intrapresi nel passato, ma ancora  prevaleva la moda di farne polenta, mentre i vari tentativi di ridurla a farina per farne il pane erano falliti.
Le patate erano invece ottime per la preparazione degli gnocchi, un piatto storico in  Italia, presente già nel medioevo, e precedentemente preparati colo con il pane.
La frittura è un tipo di cottura tipico dell'Europa, un metodo che vuole "nobilitare" il cibo con l'aggiunta di grassi saturi (lardo o olio), mentre nelle Americhe questa cottura era del tutto assente.
Ecco quindi che un prodotto tipico del nuovo mondo va ad incrociare la cottura tipica europea per eccellenza, in un ottimo esempio di sintesi culinaria!



La contesa circa l'invenzione delle patatine fritte è lunga e lungi dall'essere finita: i Francesi ne rivendicano la primogenitura, non  a caso in USA le patatine vengono chiamate French fries, ma i belgi di oppongono a questa tesi ed assicurano che l'idea originaria fu la loro, e sottolineano il fatto che le patatine perfette devono essere fritte ben 2 volte!
Curiosamente in Germania - che delle patate ha una cultura nazionale - la frittura arriva tardi, dopo che il tubero era stato già cotto, bollito, arrostito, trasformato in gnocchi ecc... A Berlino così come a Monaco infatti le patatine vengono chiamate Pommes Frites, un nome che ne avvalora l'origine d'oltralpe.


In Inghilterra si  chiamano chips, e vengono spesso associate al fish, creando un piatto che può a buon titolo essere definito un unicum britannico; patate e merluzzo fritti insieme, nello stesso burro, e spesso condite con l'aceto (non la maionese, né il  ketchup, che vengono visti come accostamenti barbari) e servite nei sacchetti di carta.



La mondializzazione dello stile Mac Donald's ha  poi contribuito a farne  una vivanda universale, forse appiattendone le differenze nazionali, cercando di uniformarne il gusto, ma sicuramente rendendo le patatine fritte il contorno più celebre al mondo.


lunedì 22 aprile 2013

Il vino dei conventi e quello delle taverne


La fine di Aprile e l'inizio di Maggio a Narni sono indissolubilmente legati alla Festa con la F maiuscola: i festeggiamenti in onore del Patrono San Giovenale, il corteo, la corsa in campo, i musici, gli spettacoli e le taverne.

E' l'occasione giusta, allora, per parlare un po' del vino, la bevanda principe del medioevo, insidiata dalla cervogia, ma solo nel nord  Italia, mentre il resto dello stivale resta fortemente ancorato al succo d'uva, che però si beveva  in un modo molto differente da ciò che ci immaginiamo.
Ecco allora qualche spunto di riflessione, e qualche curiosità al riguardo:



Durante i primi anni del Medioevo, nei territori un tempo occupati dai Romani, la produzione di vino diminuisce ed allora  lo sviluppo della viticoltura si deve in gran parte ai conventi, che lentamente si trasformano in veri e propri centri vitivinicoli, ad opera di monaci che sin dall'inizio si dedicarono alla nobile arte del vino,  in quanto elemento indispensabile durante la messa e simbolo liturgico del sangue di Cristo. 

Questo contribuì notevolmente all'espansione della viticoltura anche in molte zone dove essa non era propriamente parte delle tradizioni locali, ma  la coltivazione della vite è solo uno dei tanti aspetti e dei tanti lavori portati avanti nei monasteri , anche se tra i più importanti e redditizi...



Il vino medievale era suddiviso in tre qualità:
La prima - il "vino" vero e proprio - era ottenuta con una blanda spremitura e produceva un succo naturale e corposo; questo era il prodotto migliore e solo i ricchi potevano permetterselo. 
La seconda spremitura, più vigorosa, offriva un succo di qualità inferiore, il "vinello" probabilmente bevuto dal clero. 
Infine la terza, che generava un quasi vino chiamato "acquerello", consumato dai poveri e ricavato aggiungendo acqua alla poltiglia delle vinacce. 
Per rinforzare gli aromi, il vino medievale era spesso "condito" ripetutamente - così come in passato - con erbe, spezie, miele e assenzio, mentre per essere conservato fino a tre o quattro anni veniva bollito, pena la perdita dei tre quarti della sua qualità.



Aldilà di queste "adulterazioni" bisogna ricordare che il vino nel medioevo raramente viene bevuto puro, forse perchè troppo forte, e quindi l'annacquamento della bevanda è comune, tanto frequente  che lo stesso verbo che oggi usiamo per descrivere l'atto di versare il vino mescere, deriva proprio dall'uso di mescolare vino ed acqua!
Durante i secoli  che caratterizzano il medioevo vino, e soprattutto il "buon" vino, è  sinonimo di ricchezza e prestigio, e l'eccellere nella produzione di qualità diventa per alcuni ordini ecclesiastici quasi una ragione di vita.  
I Benedettini, diffusi in tutta Europa, erano famosi per il loro vino e per il consumo - non proprio moderato - che ne facevano.



I "Carmina Burana" descrivono - ironicamente - la bontà del vino del convento, che però è riservato solo all'abate ed ai priori, mentre il popolino è costretto a bere il vinello.
Il potere della "vermiglia bevanda", diventa ben presto bersaglio satirico del popolo costretto alla sua astinenza. Con il consueto lazzo di spirito popolare, ecco una versione "alcolica" del Pater Noster, tradotta dal latino: 
"Padre Bacco che sei nei boccali,
sian santificate le tue vendemmie,
venga il tuo tempo di fermentazione,
facci ben bere del buon vino quotidiano,
offri a noi grandi bevute come noi le rioffriremo ad altri,
inducici con le tue tentazioni aromatiche,
e liberaci dall'acqua."

Dopo il Mille, accanto alla viticoltura ecclesiastica e signorile, si affianca quella della nascente borghesia mercantile che intravedeva nella produzione e nel commercio dei vini nuove strade per profitti sicuri e redditizi. Da genere destinato all'alimentazione e agli usi liturgici, il vino diviene un bene ricercato, moneta di scambio e fonte di ricchezza per produttori e commercianti.



Ecco una ricetta di una celebre bevanda a base di vino nel Medioevo:

Ippocrasso Vino medievale
Ingredienti:
1 litro di vino rosso (ma si può fare anche col bianco), miele liquido 200 g, cannella in stecca pestata 8 g, zenzero fresco sbucciato e tagliato a fettine 8 g (sarebbe meglio altrettanta galanga, che assomiglia allo zenzero ma è più delicata, però è difficile da trovare), pochi grani del paradiso pestati (anche loro sono difficili da trovare, se non li trovate, sostituiteli con cardamomo).
Versate il vino in una brocca. Mescolate in una ciotola tutte le spezie, aggiungetele al vino assieme al miele e miscelate. Lasciate riposare per almeno 12 ore, ma anche 2 giorni, più riposa meglio è. Filtrate e passate in frigorifero, va servito a 10° di temperatura.


giovedì 4 aprile 2013

Cum Grano Salis

Oggi parliamo un po' del sale, non delle sue caratteristiche chimiche, né di quelle culinarie, bensì del suo peso all'interno della nostra cultura orale tradizionale.





Il Sale è un elemento molto importante nell'alimentazione ed è  carico di simbologie fin dai tempi più remoti. Era previsto nei riti sacrificali da Ebrei, Greci e Romani come simbolo d'incorruttibilità; veniva sparso sulle rovine delle città nemiche rase al suolo a simboleggiare la futura sterilità della zona; era considerato sicura protezione contro gli influssi maligni con particolare riguardo alle streghe.



Dal tempo dei Longobardi in poi, se offerto insieme al pane, era il segno dell'accettazione di un ospite straniero e della sua inviolabilità. Nel Battesimo verrà poi esorcizzato e posto in bocca al battezzando a simboleggiare la forza spirituale e l'incorruttibilità morale della sapienza, dopo che Cristo ebbe definito “sale della terra” i propri discepoli (Matteo,5,13) in quanto votati a dare “sapore” alla vita, e quindi a darle significato, mediante la diffusione della parola di Dio e salvando così il mondo dalla corruzione.

Nella tradizione popolare il sale a tavola non deve essere mai versato, perché la sua caduta accidentale porta sfortuna, in quanto considerato simbolo di ricchezza che così andrebbe sprecato; nel caso in cui questo incidente avvenga, bisogna subito gettarne un po' dietro la schiena per prevenire la venuta degli spiriti maligni!

In alcune culture orientali il sale serve anche a purificare la terra, prima di un evento: in Giappone i lottatori di Sumo lo gettano infatti sul tatami prima degli incontri:




Molti termini moderni derivano dall'uso del sale, dalla sua esistenza all'interno del sistema sociale diremmo: la parola Salario - ad esempio - è ancora fortemente legata all'uso di pagare i soldati dell'esercito Romano con grandi quantità di sale, un elemento essenziale per la conservazione della carne, di grande importanza nel mondo classico.
Il "peso economico" del sale è d'altronde ben presente anche nella sua aggettivazione: una merce molto costosa è salata, il prezzo è salato, ecc.... Ciò rafforza l'idea del sale come sinonimo di oggetto di gran pregio e valore!



La lingua italiana -grazie alla cultura alimentare del nostro paese, che sin dall'epoca classica ha basato molto della sua esistenza sull'uso del sale (basti pensare all'importanza di una strada consolare come la Salaria, che fu costruita proprio per lasciar passare i carichi di sale verso Roma..) riflette questa radice in molti modi di dire, eccone alcuni, tra i più comuni:

Avere il sale in zucca: essere intelligenti
Cum grano salis: capire qualcosa non soffermandosi sull'aspetto superficiale
Essere il sale della terra: essere molto colti, indispensabili
Essere senza sale (sciapo): essere scialbo, insulso
Mettere il sale sulla coda (catturare qualcuno arrivandogli molto vicino
Rimanere di sale: restare immobili, stupefatti (con riferimento alla moglie del biblico Lot)
Spargere sale sulle ferite: aggravare un dolore, una situazione spiacevole

Alcuni proverbi regionali poi ricorrono al sale per evidenziare la propria saggezza popolare  ad esempio in Toscana si dice: Prima di scegliersi un amico bisogna averci mangiato il sale sette anni: ed a Napoli: Omo senza vizi è menestra senza sale !

In conclusione, visto che la curiosità è il sale della vita, speriamo di aver sfamato qualche lettore !






domenica 10 marzo 2013

Spaghetti !

Spaghetti, maccaroni, pastasciutta: così venivano (vengono?) chiamato i nostri connazionali all'estero, in America soprattutto, ma anche in Germania ed in altri paesi che hanno visto arrivare la prima e la seconda emigrazione italiana, ovvero quella del primo '900 e quindi nel dopoguerra.

Un epiteto offensivo, certo, dozzinale e superficiale, come negarlo?  Un modo di sottolineare un'identità collettiva fatta solo di pasta e poco più, senza preoccuparsi del resto, della storia,della cultura e la voglia di emergere che invece - sovente - caratterizzò questi primi emigranti.

Un sostantivo/aggettivo dispregiativo dunque, eppure non del tutto errato: è indubbio che la nostra cultura alimentare sia strettamente legata alla pasta, che - al pari del pane - rappresenta senza dubbio la koinè nazionale: onnipresente, multiforme e multicolore, creata e mangiata da nord a sud, senza distinzioni.
Il legame Italia - spaghetti passa anche attraverso alcune immagini ormai "storiche" che il cinema italiano ha proposto negli anni, e così l'Italiano-tipo manifesta il suo amore per gli spaghetti anche sul grande schermo, influenzando l'immaginario collettivo degli stranieri rispetto al nostro paese. Basti pensare  - ad esempio - alla  tradizione degli  "Spaghetti Western" che individua da sempre le produzioni italiane (legate a Sergio Leone e Corbucci) di genere ma girate in Italia.

Abbiamo quindi pensato di riunire qui tre tra le scene più famose dei  film "speghettari" che hanno contribuito a creare il connubio Spaghetti - Italia nel mondo, di cui uno proveniente direttamente da Hollywood! Per la nostra (e speriamo vostra) gioia:

sabato 2 marzo 2013

Storia ed origine del Ristorante

Il Ristorante - nelle sue molte declinazioni etniche, tradizionali, internazionali - è decisamente un'istituzione fondamentale per l'alimentazione: un locale dove ci si siede e si mangia, pagando una certa somma per il cibo ed il servizio. Fin qui tutto bene, ma qual'è la storia e l'origine del ristorante moderno?
Il cibo viene venduto in strada sin dall'origine dei tempi: alle fiere, ai mercati della domenica, durante particolari eventi pubblici, già nell'antica Roma - così come nella Cina Imperiale o nel Magreb - la gente poteva approfittare di luoghi pubblici dove sostare lungo un viaggio e rifocillarsi velocemente, "ristorandosi" dalle fatiche appunto.



Le cucine di strada sono da sempre il perno di questa ristorazione: per pochi soldi si può comprare del cibo (pronto) in Cina, in Giappone (a Tokyo proprio nei cosiddetti Yatai di strada si vendono le migliori zuppe di udon), in Europa o in Africa, magari sedendosi su piccoli banchetti improvvisati, fianco a fianco con altre persone.


Ancora oggi i ristoranti di strada sono parte integrante della geografia dei villaggi in Africa o in Oriente, ed una loro versione più "stabile" ha ormai conquistato l'occidente da anni: pensiamo infatti al fenomeno del Kebab.
Quando - e dove - si passò da questa filosofia "di strada" ad una situazione più stabile e completa? Possiamo affermare che il salto avvenne in Francia, durante il 18° secolo, dove esistevano già Locande e spacci pubblici di bevande e cibo in precedenza, luoghi di incontro per viaggiatori da tutta Europa, che però non si preoccupavano molto della qualità del cibo, quanto della velocità nel servizio e dei prezzi contenuti.
Tra i cibi offerti in questi luoghi possiamo ricordare i salumi, i formaggi ed i Crauti (soprattutto in Alsazia, e poi in Austria), ovvero cibi non esattamente elaborati, ma che fungono allo scopo: il sale e le spezie contenute nelle pietanze accendono la sete ed il cliente ordina soprattutto da bere, birra e vino, per la gioia dei tavernieri.



In Austria, soprattutto nella Wiener Wald (la Foresta Viennese) esistono ancora oggi locali simili che servono  vino nuovo (Heuriger) accompagnato da salumi e formaggi. In Spagna questa memoria è presente nelle bodegas che servono Tapas, e - naturalmente - in Inghilterra la memoria va subito ai Pubs.
Tutti questi locali avevano (ed in una certa misura hanno ancora) la fama di essere un ritrovo per gente del popolo, luoghi spesso sconvenienti che attirano gente litigiosa e poco educata!
In Italia questo ruolo veniva svolto egregiamente dalle Trattorie, loddove i trattori (dal latino tractare, ovvero maneggiare, curare, e quindi servire e dare da mangiare...) erano ben noti ai viaggiatori del Grand Tour.

A Londra le taverne (Inn, nel senso di locale con parte interna, mentre il termine Pub è un'evoluzione di Public House..) nel 18° secolo possono essere considerate già alla stregua dei ristoranti moderni, in quanto offrono spesso cibo cucinato, caldo - spesso zuppe ed arrosti - che l'oste serve al tavolo, e sono solitamente considerati locali d'élite, molto diversi dalle taverne italiane o tedesche, quasi dei "Ristoranti" appunto, dove mangiano i membri del parlamento che non usano cucinare a casa!



La svolta verso il moderno "Ristorante" - e la nascita del nome stesso - si ha forse a Parigi, con il celebre Boulanger (panettiere) Chantoiseau che nel 1765 apre un locale nei pressi del  Louvre, dove affianca cibi caldi e minestre al suo pane ed ai tipici formaggi da tavola: è lui a chiamare il suo brodo "brodo ristorante", riferendosi ad un consommé a base di carne, adtto  a ristorare le forze indebolite degli operai.
L'aggettivo "ristorante" è noto sin dal Medioevo, ed indica proprio queste vivande ricche di carne e grassi, utili a ristorare le forze.
Il filosofo Diderot parla molto bene del locale del Ristoratore Chantoiseau, e di lì a poco altre trattorie e locande parigine si dedicano a creare piatti caldi, ristoranti, sempre più raffinati, serviti non più al bancone, o su tavole comuni, bensì ai piccoli tavoli individuali,  ricoperti da tovaglie, esibendo una lista di pietanze su un foglio incorniciato (il menù) ed esibendo al termine del pasto la "carta di pagamento", ovvero il conto.



Durante la Rivoluzione, e subito dopo, la notorietà dei nuovi locali va di pari passo con la diffusione del nome, per cui il termine "ristorante" passa dal definire un cibo, ad indicare il locale stesso dove questo cibo viene servito, e la parola passa nelle altre lingue con tale significato.
Oggi il termine Restaurant è entrato di forza nell'esperanto del cibo, è compreso da Tokyo a Mosca, da Città del Capo ad Helsinky, ed è apprezzato ovunque!

martedì 19 febbraio 2013

Dimmi cosa mangi...

... e ti dirò chi sei! Almeno questa è la versione tradizionale del  proverbio, ma oggi vogliamo modificare la seconda parte in "..e ti dirò da dove viene", poiché ci occuperemo di 4 esempi tipici dell'alimentazione mondializzata, e cioè che si possono trovare in ogni parte del mondo, soffermandoci sulla loro curiosa etimologia, che ci illuminerà anche sulla loro storia e provenienza.  Ecco i nostri snack:
Hamburger: la classica polpetta di carne, simbolo stesso del fast food made in USA, ha - come si può ben dedurre - un legame affettivo con la Germania: ad Amburgo si producono da sempre le polpette di carne trita, ovvero le Hamburger Klopse, come potrà notare chiunque si avventuri in un mercato della città anseatica. La parola (ed il cibo) diventa molto popolare negli USA quando gli emigranti tedeschi del 19° secolo giungono a New York, portandosi dietro questo cibo relativamente facile da mangiare in piedi, in strada, suscitando così la curiosità dei ragazzi locali che iniziano a chiedere alle mamme di preparare le Hamburger Steak (bistecche amburghesi) alla maniera dei tedeschi.



Secondo un'altra versione - che comunque si accosta facilmente a questa) un'altra possibile influenza sulla diffusione del termine e del cibo viene dalle navi che trasportavano gli immigranti ed il loro cibo, in gran parte appartenenti alla flotta Hamburg Line.  La prima ricetta di un  hamburger in terra americana si fa risalire ad un libro di cucina del 1884, mentre  il termine Hamburger (resta l'aggettivo che perde quindi il sostantivo steak..) si trova in un quotidiano di Washington del 1889.
Hot Dog: l'origine della parola che indica la classica salsiccia nel panino, originariamente Wurst in tedesco (come spiegammo in questo post) è molto interessante ed altrettanto contrastata, ne esistono molte versioni, e si è persino creata una sorta di leggenda attorno all'etimologia del termine.
Secondo una versione (oggi diremmo leggenda urbana, in quanto non suffragata dai fatti, ma ben radicata nella cultura popolare..) il termine fu usato da un venditore di salsicce nel vecchio stadio dei Giants di New York nel 1900, e visto che poverino non sapeva pronunciare il termine Frankfurter (con cui vengono chiamate le salsicce tedesche all'estero) si "inventò" la parola hot dog, forse per assonanza della forma del panino con un  quella di un bassotto. A quell'evento assistette il  disegnatore satirico T.A. Dorgan che  poi raffigurò l'hot dog nel suo giornale.



La storia è però leggendaria, ed a quanto si sa, non esiste nessun disegno simile, nè testimonianze coeve del fatto.
Più verosimile è invece questa versione: attorno alla metà del 1800 negli USA si vendevano già salsicce in strada, un cibo a buon mercato, comodo da mangiare e da acquistare. Visto il basso prezzo di vendita però qualcuno iniziò a sospettare che la provenienza della carne non fosse molto chiara, mandando in giro la versione che, tra le varie carni usate per le salsicce, ci fosse anche quella dei poveri cani randagi! La voce di diffuse velocemente e molti clienti avallarono l'ipotesi per burla..
Verso il 1894 gli studenti della Yale University - abituali clienti dei venditori ambulanti di salsicce (hot sausages, o anche hot frankfurter) - iniziarono per scherzo  a chiamare i  carretti dei venditori dog wagons, suffragando la tesi canina della salsicce, e -conseguentemente- le hot sausages divennero presto hot dogs!








La voce si diffuse in tutta la costa orientale  e presto anche negli stadi di baseball, da dove prese  il via per la diffusione continentale.
Pretzel: anche questo snack salato, che ha conosciuto fama internazionale, viene  dalla tradizione tedesca: la variante Pretzel, che conosciamo anche grazie ad Homer Simpson, è una variazione del termine Brezel, la cui radice è molto antica.



La parola è originariamente alto-tedesca, e nel medioevo viene coniata per indicare una ciambella "devozionale" che veniva cucinata nei monasteri carolingi in occasione di alcune festività cristiane. La sua forma richiama alla mente due braccia incrociate, come quelle di un bambino (forse Gesù bambino in grembo alla Madonna...) e visto che in latino la parola braccia è brachium, o bracchium, il prestito tedesco la trasforma in bracchiolum (piccole braccia) che poi - per assonanza - diveneterà brezzila e brezzel.   La ciambella salata è un elemento spesso presente nelle rappresentazioni medievali di banchetti, come in questo caso:



Donut: altra variante di ciambella, la classica ciambella dolce, americana, protagonista di ogni film in cui sia presente  un poliziotto (sembra che begli USA gli agenti non mangino altro...) o qualche membro della famiglia Simspson !  





La parola Donut (nota anche grazie all'omonima catena di negozi dunkin' donuts, ormai presente in ogni parte del pianeta) è una variazione del termine originale Doughnut, che - a sua volta - sembra sia stato coniato all'inizio del 1800 per indicare una ciambella nata da una noce (nut) di impasto (dough) per dolci.
Il celebre scrittore Washington Irving ne parla nella sua "Storia di New York" del 1809.
Lo spelling semplificato Donut è stato scelto per facilitarne la pronuncia, e già il New York Times lo adotta nel 1930 parlando di un "National donut week" in un articolo.
Da quel momento le ciambelle colorate, dolci, molto glassate ed attraenti hanno segnato la storia stessa del comfort food (o junk food?) negli USA e quindi nel mondo.




domenica 3 febbraio 2013

Maestro Martino

Uno tra i più importanti cuochi tra il tardo Medioevo ed il  Rinascimento è sicuramente Martino de Rubeis, noto come Maestro Martino, nato attorno al 1430 probabilmente nel Canton Ticino, attivo a Milano, nella Longobardia medievale, durante la seconda  metà del 15° secolo, ed autore di uno dei testi culinari più rinomati della storia della cucina: il Liber de Arte Coquinaria, che - malgrado il titolo latino - raccoglie centinaia di ricette in lingua volgare, e che ha segnato la gastronomia italiana per molti secoli.



Raramente ci pervengono i nomi di cuochi e gastronomi dal passato, e quei pochi noti alla storia (Apicio il più noto) sono spesso legati a molte funzioni: preparatori di cibo, gastronomi, "studiosi" del cibo in generale, per cui è arduo stabilire una discriminante tra semplici artigiani e preparatori di pietanze e veri cuochi.
Questo trend non migliora nel Medioevo, le ricette che vengono trascritte nei vari trattati spesso sono anonime (come nel Liber de Coquina dell'inizio del 14° secolo, e fonte anche per alcune ricette di Mastro Martino), in quanto ciò che importa è la loro validità e certamente non l'originalità, che viene -anzi - vista con sospetto, perchè non sperimentata dal popolo!



La lettura di Mastro  Martino ci dà anche uno spaccato delle abitudini sociali, conviviali del suo tempo: nel libro si descrivono le pietanze, ma anche le modalità della preparazione della tavola, addirittura commenti circa gli ospiti a cui alcune pietanze sono destinate (per il popolo, per i nobili ecc...) sottolineando quindi -come ci ha ben spiegato Massimo Montanari nelle sue opere - che il valore simbolico, di "casta" del cibo è spesso di gran lunga maggiore del suo valore intrinseco!



Molte pietanze citate nel ricettario di Mastro Martino sono entrate nella tradizione culinaria italiana, seppure qui, attorno al 1400, vengono preparate con ingredienti diversi, e spesso con condimenti diversi ! Piuttosto comune in quest'epoca è infatti l'uso di accostare salse dolci a cibi salati, ed alternare l'aspro ed il dolciastro (tradizione tipica della Roma antica) nelle pietanze.

Vi proponiamo un esempio di ricetta "classica"  della cucina italia tout court nella preparazione e con le parole di Maestro Martino: quei Maccaroni che hanno caratterizzato per secoli  addirittura il popolo italiano in senso stretto:


Maccaroni romaneschi.

Piglia de la farina che sia bella, et distemperala et fa' la pasta
un pocho più grossa che quella de le lasagne, et avoltola intorno ad
un bastone. Et dapoi caccia fore il bastone, et tagliala la pasta larga
un dito piccolo, et resterà in modo de bindelle, overo stringhe.
Et mitteli accocere in brodo grasso, overo in acqua secundo il tempo.
Et vole bollire quando gli metti accocere. Et se tu gli coci in acqua
mettevi del butiro frescho, et pocho sale. Et como sonno cotti mittili
in piattelli con bono caso, et butiro, et spetie dolci.



venerdì 21 dicembre 2012

Scienza vs. tradizione: la fisica contro Babbo Natale

Dopo aver brevemente - e speriamo piacevolmente -  illustrato nel post precedente  la tradizione legata a San Nicola, e quindi  le sue "trasformazioni" nel tempo e nel mondo, vorrei dedicare questo piccolo post pre-natalizio ad un altro aspetto, diciamo più leggero legato alla figura di Babbo Natale: il suo immane, eroico sforzo di combattere contro le leggi della fisica per fare felici tutti i bambini del mondo.

Lo spunto viene da una celebre - ed ormai datata - ricerca effettuata da un gruppo di allegri studenti di fisica,  forse americani (ma qui la memoria - seppur recente - si è persa..) e sembra  nata per scherzo, seppure con tutti i crismi della ricerca scientifica  con il fact checking e le formule giuste insomma.

Molti di voi la conosceranno già, ma visto che "repetita juvant" in questo clima fresco  natalizio pensavamo di  trascorrere le poche ore che restano al 25 Dicembre con qualche sana risata.



PROVA SCIENTIFICA CIRCA L'IMPOSSIBILITA' DELL'ESISTENZA DI BABBO NATALE.


Nessuna specie conosciuta di renna può volare. Ci sono però 300.000 specie di organismi viventi ancora da classificare e, mentre la maggioranza di questi organismi è rappresentata da insetti e germi, questo non esclude completamente l'esistenza di renne volanti che solo Babbo Natale ha visto.
Ci sono due miliardi di bambini (sotto i 18 anni) al mondo. Dato però che Babbo Natale non tratta con bambini Musulmani, Hindu, Buddisti e Giudei, questo riduce il carico di lavoro al 15% del totale, cioè circa 378 milioni.

Con una media di 3,5 bambini per famiglia, si ha un totale di 98,1 milioni di locazioni. Si può presumere che ci sia almeno un bambino buono per famiglia.Babbo Natale ha 31 ore lavorative, grazie ai fusi orari e alla rotazione della terra, presumendo che viaggi da Est verso Ovest.
Questo porta ad un calcolo di 822,6 visite per secondo. Questo significa che, per ogni famiglia Cristiana con almeno un bambino buono, Babbo Natale ha circa un millesimo di secondo per:

  1. trovare parcheggio (cosa questa semplice, dato che può parcheggiare sul tetto e non ha problemi di divieti di sosta);
  2. saltare giù dalla slitta;
  3. scendere dal camino;
  4. riempire le calze;
  5. distribuire il resto dei doni sotto l'albero di Natale;
  6. mangiare ciò che i bambini mettono a sua disposizione;
  7. risalire dal camino;
  8. saltare sulla slitta;
  9. decollare per la successiva destinazione.
Ipotizzando che le abitazioni siano distribuite uniformemente (che sappiamo essere falso, ma accettiamo per semplicità di calcolo), stiamo parlando di 1.248 Km per ogni fermata, per un viaggio totale di 120 milioni di Km.Questo implica che la slitta di Babbo Natale viaggia a circa 1040 Km/sec, a 3000 volte la velocità del suono. Per comparazione, la sonda spaziale Ulisse (la cosa più veloce creata dall'uomo) viaggia appena a 43,84 Km/sec, e una renna media a circa 30 Km/h. Il carico della slitta aggiunge un altro interessante elemento:



Ipotizzando che ogni bambino riceva una scatola media di Lego (del peso di circa 1 Kg), la slitta porta circa 378.000 tonnellate, escludendo Babbo Natale (notoriamente sovrappeso).
Sulla terra, una renna può esercitare una forza di trazione di circa 150 Kg.Anche assumendo che una "renna volante" possa trainare 10 volte tanto, non è possibile muovere quella slitta con 8 o 9 renne, ne serviranno circa 214.000.Questo porta il peso, senza contare la slitta, a 575.620 tonnellate. Per comparazione, questo è circa 4 volte il peso della nave Queen Elizabeth II.

Sicuramente 575.620 tonnellate che viaggiano alla velocità di 1040 Km/sec generano un'enorme resistenza. Questa resistenza riscalderà le renne allo stesso modo di una astronave che rientra nell'atmosfera. Il paio di renne di testa assorbirà 14,3 quintilioni di Joule per secondo.

In breve si vaporizzerà quasi istantaneamente, esponendo il secondo paio di renne e creando assordanti onde d'urto (bang) soniche. L'intero team verrà vaporizzato entro 4,26 millesimi di secondo.

CONCLUSIONE: se Babbo Natale fosse mai esistito, ora sicuramente è morto!


E' un gioco, una burla, sia ben chiaro che NOI a Babbo Natale ci crediamo eh !! 

BUONE FESTE ! ! !

giovedì 6 dicembre 2012

Da San Nicola a Santa Claus


Ovvero: delle metamorfosi di Babbo Natale

 Il 6 Dicembre segna inevitabilmente l’inizio dei festeggiamenti legati al Natale, e – più in generale – alla fine dell’anno solare, celebrando il primo Santo che dispensa doni ai bambini, seguito (sempre nel mese di dicembre) da Santa Lucia, Gesù  Bambino, ed infine (a Gennaio) dai re Magi.
Ma chi era San Nicola? E come mai nel tempo è diventato Santa Claus, ovvero il nostro Babbo Natale?



San Nicola, Vescovo di Myra visse nell'attuale Turchia del 3° secolo, ed è uno dei primi vescovi cristiani ufficiali eletti dopo l'editto di Costantino.
Dopo la morte parte delle sue spoglie furono portate a Bari (da cui l’appellativo San Nicola di Bari) e la venerazione popolare presto lo accostò al mondo infantile, questo perché del Santo veniva ricordato un miracolo in cui si fece benefattore di alcune ragazze nubili in difficoltà economica, che rischiavano di essere vendute dal padre come schiave.
Nicola raccolse del denaro e lo lasciò proprio fuori dalla porta, ma poi in alcune rappresentazioni medievali i  suoi doni saranno lasciati all'interno di scarpe nuove per le ragazze, scarpe che con il passare del tempo si trasformeranno in calze, proprio come quelle che si appendono al camino!



Da Bari, attraverso il porto ed i collegamenti marittimi col Nord Europa, il santo lentamente viene venerato anche come protettore dei marinai: le prue delle navi occidentali spesso sono intarsiate con la sua effige in abiti vescovili e barba lunga.
In quasi ogni città portuale, anche dove c'è solo un porto fluviale, nascono chiese dedicate a San Nicola (persino a Berlino, c'è il quartiere di san Nicola, uno dei più antichi della città sulla Sprea), ed i marinai cominciano ad esportare effigi del santo anche oltre oceano.



La sua iconografia è semplice: magro, con la mitra (nel senso di cappello e non arma..) e bastone pastorale, l'abito è bianco e rosso, ma il rosso è ancora sporadico.
In Europa, soprattutto nel Nord, il santo continua ad essere invece associato ai bambini ed alla distribuzione di doni, soprattutto ai bambini buoni, e col tempo gli viene associato anche un losco aiutante, che in Germania chiamano Ruprecht, a metà strada tra un Troll ed un diavolo (retaggio pagano) che invece deve spaventare i bambini cattivi!



La figura si associa quindi al 35 Dicembre solo "occasionalmente", visto che il 6 Dicembre è l'inizio dei festeggiamenti dell'avvento cristiano, ma di lì a farne un vero e proprio distributore di dolci passeranno anni, anzi secoli..

Marinai olandesi ed inglesi nel frattempo hanno esportato la figura anche in America, con il nome di Sankt Nikolaus, nome ostico per gli americani (era già successo con le polpettine di carne amburghesi, Hamburger Klopse che i locali ribattezzarono velocemente hamburger..) e quindi tendono a chiamarlo solo Saint Claus, poi - per una strana evoluzione - Santa Claus.



La figura è però ancora marginale, finchè - all'inizio del 20° secolo - l'aspetto moderno di Santa Claus assume la forma definitiva grazie ad una sua raffigurazione contenuta nella pubblicazione della poesia "Una visita di San Nicola", ora più nota con il titolo La notte di Natale (The Night Before Christmas), avvenuta sul giornale Sentinel nel 1823.



Santa Claus vi viene descritto come un signore un po' tarchiato con otto renne, che vengono nominate (per la prima volta in questa versione) con i nomi di Dasher, Dancer, Prancer, Vixen, Comet, Cupid, Donder e Blitzen.

Le immagini di Santa Claus si sono ulteriormente fissate nell'immaginario collettivo grazie al suo uso nelle pubblicità natalizie della Coca Cola. La popolarità di tale immagine ha fatto sì che si diffondessero varie leggende urbane che attribuivano alla Coca-Cola l'invenzione stessa di Santa Claus.
È, vero che l'immagine della Coca-Cola e quella di Santa Claus sono sempre state molto vicine, poiché - pur non inventandolo - viene comunemente rappresentato con i colori bianco e rosso: originariamente il vestito di Santa Klaus era infatti di colore verde, ma fu proprio con il marchio Coca Cola ad assumere gli odierni colori, come una lattina di Coca Cola!



Ecco quindi che il vecchio vescovo turco, magro e quasi ascetico, torna in Europa (dopo la seconda guerra mondiale) quale paffutello vecchietto di rosso vestito !