Il maiale,
in ogni sua declinazione (dall’arrosto ai salumi) ha sempre giocato un ruolo
importante nelle nostre cucine: la lavorazione della sua carne è da tempo
immemorabile un momento di unione, di
convivio, di “pacificazione” tra famiglie e vicinanze addirittura, ed ogni
operazione relativa alla sua preparazione coinvolge interi gruppi familiari sia
in campagna che nelle piccole città.
La carne
però è spesso un lusso, e durante i periodi di carestia - dal medioevo al 19°
secolo – il suo uso è fortemente limitato,
quindi alla base dell’alimentazione “di
massa” ci sono le verdure, le erbe, i frutti della terra che vengono cucinati e
serviti in ogni combinazione possibile.
L’importanza
delle “verdure basse”, quelle che ogni cittadino può coltivare nel proprio orto,
è allora fondamentale per la nostra cucina, e - ben prima dell’arrivo dei
frutti esotici e del pomodoro, che arricchiranno i nostri giardini solo a partire dal 17° secolo – le erbe
naturali entrano nella nostra cultura popolare, come sinonimo di cibo povero ma
essenziale, per cui, quando dalle nostre parti si fa riferimento al cibo
semplice, si dice “mangiare pane e cicoria” !
Alcune erbe
di campo sono da sempre alla base della
cucina popolare Umbra, e la conoscenza di un territorio e delle sue piante sono
fondamentali per trasmettere cultura locale,
prima a livello orale, quindi in forma scritta, nelle ricette
casalinghe, quindi nei ricettari.
Certe erbe
non hanno nemmeno un nome definito, vengono incluse nel termine “misticanza”, che indica genericamente
un’insalata mista, eppure le donne e gli uomini della nostra terra le conoscono
dall'alba dei tempi, mentre spesso i botanici e gli scienziati ne ignorano
l’uso e la stessa esistenza. In questo senso la cultura popolare le ha veicolate verso il presente,
senza bisogno di essere definite.
Nei periodi
di magra, in pieno inverno, o durante le frequenti carestie, le erbe prendono
il posto della carne, ovvero – se possibile – la accompagnano abbondantemente
per supplire alla carenza di calorie; l’orto privato, domestico, o vicinale
gioca in questo senso un ruolo fondamentale per l’alimentazione del
gruppo-famiglia, e la stessa geografia urbana delle nostre città (almeno fino ai primi anni del ‘900) veniva
caratterizzata da un continuo alternarsi di mura ed orti, di giardini privati e
semplici passaggi naturali verso le porte della città.
La
tradizione delle passeggiate “extra moenia” a caccia di cicoria, raponzoli,
valeriana, asparagi ed altre erbe è sopravvissuta fino ai giorni nostri, e soprattutto
nei piccoli centri medievali non è raro imbattersi in anziani signori che si
calano in fossi e percorrono strade poco battute durante le ore più calde del
giorno, alla ricerca delle preziose erbe.
Si dice
“erbe di campo” e si pensa ai fossi, ai prati, alla vegetazione spontanea che
arricchisce le tavole a cavallo tra inverno e primavera, insalate dai gusti
diversi, più amare di quelle coltivate e dai nomi curiosi, popolari (visto che
– come abbiamo detto – non ne hanno di scientifici) che richiamano alla memoria
il loro “uso” o la forma particolare: bietole, puntarelle, caccialepri,
raponzoli, che si sposano all’aceto bollito, all’aglio, alla salsa di acciughe
ed aceto, seguendo anch'esse una “nobilitazione” de facto.
Nel Medioevo
i monaci chiamavano queste erbe “Provvidenza”, legando la loro comparsa alla benevolenza di Dio; un alimento che non necessita di lavoro
quindi, un dono inatteso della terra, e mentre la regola benedettina spinge al
lavoro nei campi (ora et labora) gli eremiti preferiscono vivere di elemosina,
ed amano di conseguenza questo cibo “divino”.
La maggior
parte degli uomini (in campagna, e nelle nuove città nel medioevo) cercano però
una sintesi, e così coltivano il campo, zappano, arano, ma poi accolgono con gioia
anche queste erbe spontanee.
Gli orti nel
medioevo sono straordinari luoghi di sperimentazione, dove i saperi agronomici
e le pratiche di coltivazione si
incrociano, e danno vita a veri e propri percorsi ideali e materiali. L’orto
fornisce il cibo (erbe, frutta, verdura
e spesso cereali per preparare il pane)
ed assolve così alla sua funzione primaria, ma allo stesso tempo ripropone uno spazio ideale, mistico (si pensi ai giardini
zen della tradizione orientale), dove il
credente può addirittura ripercorrere i sentieri dell’eden, circondato da
piante, colori ed odori che richiamano una spiritualità ascetica.
Le piante
selvatiche, di campo, vengono lentamente addomesticate, e così i finocchi ed i
cardi vengono addolciti dagli
orticoltori, che li trapiantano nei giardini strappandoli alla natura
“salvatica” del bosco, del campo appunto.
Nei secoli le
erbe selvatiche hanno persino contribuito alla ricerca affannosa del pane, il
vero elemento culturale italiano, tanto importante nella nostra storia da aver
contaminato il linguaggio, per cui l’italiano è l’unica lingua che prevede l’espressione “pane e companatico”,
da cui si desume che l’alimento centrale è il pane, il resto è con il pane. Questa centralità del pane (insieme a quella
dell’olio) è – in parte – retaggio del cristianesimo, per cui la stessa
transustanziazione vede il corpo di Cristo farsi pane per noi, ed il pane
quotidiano è l’elemento portante addirittura del Padre Nostro.
Nei
tempi di carestia però, soprattutto
nell’alto Medioevo e durante i lunghi periodi bellici, i cereali alti (grano) e
quelli bassi (spelta, miglio..) scompaiono dalla tavola, ed allora non sono
rari i casi di improbabili tentativi di panificazione con erbe di campo,
persino con erbacce, che venivano macinate e trasformate in pagnotte, dal
dubbio potere nutritivo e sostanzialmente immangiabili, se non nocive per l’uomo. L’unico succedaneo del
grano (naturalmente prima della comparsa del mais in Europa) che ebbe fortuna fu la castagna: cotta,
sminuzzata, tritata e trasformata in farina, da vita a quello che forse è il
primo dolce nazionale: il castagnaccio.
Non è un caso che il castagno sia anche chiamato “albero del pane” e la
sua presenza all'interno degli orti vicinali o in quelli privati diventa nei
secoli una costante anche in Umbria, accanto all'ulivo
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